Gioia del dono di una Chiesa di comunione – 5° PARTE

Meditazioni del Cardinale Van Thuan

Carissimi Confratelli in questa tappa del nostro itinerario di riflessione e di preghiera meditiamo alla comunione che siamo chiamati a vivere con Cristo nella Chiesa.

1. Sacerdoti per la comunione

Se il nostro sacerdozio è impensabile senza il Signore Gesù, non sarebbe meno impensabile se venisse separato dal mistero della Chiesa. La Chiesa ci ha generato alla fede e alla grazia del battesimo e del sacerdozio. È per la Chiesa che siamo stati costituiti pastori ed è in essa che ogni giorno attingiamo alle sorgenti della grazia l’acqua della vita, di cui abbiamo bisogno per vivere e che siamo chiamati a donare ai nostri fratelli e sorelle.

Durante gli anni del carcere ho pensato tante volte a quella frase degli Atti degli Apostoli in cui si dice che, “mentre Pietro era tenuto in prigione, una preghiera saliva incessantemente dalla Chiesa a Dio, per lui” (At 12, 5).

Mai mi sono sentito separato dalla Chiesa e con l’aiuto di Dio ho cercato di offrire tutte le mie sofferenze per la Chiesa, anche quando per forza maggiore ero costretto ad essere, almeno in apparenza, un “cattolico non praticante”. Non potevo andare in Chiesa, né confessarmi, perciò quando dico che il nostro sacerdozio non può essere pensato senza la Chiesa, parlo per esperienza vissuta direttamente. Soprattutto negli anni di forzata separazione dalla comunità, nelle prove del carcere duro che, senza motivo, né giudizio giuridico, ho dovuto subire.

Vi parlo dunque della Chiesa con l’amore di un figlio che parla di sua madre, di uno sposo che parla della sua amata, di un padre che parla dei suoi figli. Quando ho letto il numero 43 della Novo Millennio Ineunte, che tratta della spiritualità della comunione, mi è parso di ritrovare in esso il senso profondo di ciò che ho sperimentato in tutta la mia vita di cristiano e di pastore. Veramente la Chiesa è la casa, è la scuola della comunione dove nasciamo all’amore e impariamo ad amare con il cuore di Dio.

Spiritualità della comunione è innanzi tutto la «capacità di vedere ciò che vi è di positivo nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio. Un dono per me, oltre che per chi lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è sapere fare spazio al fratello portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6, 2), respingendo le tentazioni egoistiche che ci insidiano continuamente e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie» (Novo Millennio Ineunte n. 43).

Senza questa spiritualità di comunione non potremmo vivere la nostra vita di pastori chiamati ad edificare e a sostenere l’unità del corpo di Cristo che è la Chiesa che amiamo.

2. Le difficoltà sul cammino della comunione

Si possono delineare molto concretamente le difficoltà e le resistenze che si incontrano sul cammino della comunione:

-> l’inerzia

La prima è costituita dall’inerzia che deriva dalla frustrazione di non vedere spesso il risultato del nostro lavoro e da un certo senso di solitudine e di stanchezza che ci fa preferire la ripetitività al coraggio e all’invettiva pastorale.

Anche per me, negli anni del carcere, si è presentata talvolta la tentazione dello scoraggiamento. In quei momenti poteva apparirmi preferibile la ricerca di qualche compromesso che consentisse uno statu quo tranquillo con i potenti che mi tenevano in prigione. Ho sempre respinto questa tentazione, pensando al futuro che Dio preparava per il mio popolo e per me come suo pastore, e affidandomi alla fedeltà di Dio che si mostra soprattutto nei momenti oscuri della prova. In tale modo ho potuto comprendere quanto sia sottilmente pericolosa la tentazione di fare confronti con quelli che cercano le vie del compromesso e a cui sembra che tutto vada bene, invece che con coloro che scelgono la via difficile della fedeltà alla volontà di Dio, seguita nella propria coscienza.

La spiritualità della comunione aiuta a superare l’inerzia, perché ci ricorda che noi sacerdoti dobbiamo amare soprattutto la Chiesa che Dio ci ha affidato e la verità che la fa libera.

-> la mancanza di formazione

La seconda difficoltà sulla via della comunione è costituita dalla mancanza di formazione. Essa riflette a volte una più generale mancanza di attenzione all’ identità e alla missione dei sacerdoti da parte della comunità.

Sulla base della mia esperienza posso affermare che la formazione teologica e spirituale è fondamentale per vivere nel tempo la fedeltà al dono che ci è stato affidato. Negli anni in cui sono stato privato di tutto, perfino della possibilità di leggere qualcosa, mi sono tornate continuamente nella mente e nel cuore i capisaldi della mia formazione di cristiano, di sacerdote e di vescovo. Senza l’assimilazione profonda di quei valori, primo fra tutti l’amore per la verità e l’esigenza di obbedire a Dio e di piacergli in tutto, forse non sarei sopravvissuto.

Molti dei miei compagni di carcere, incapaci di perdonare a chi ci faceva del male, sono morti anche dopo la liberazione per le conseguenze dell’ira accumulata e dei traumi subiti. Non erano isolati, vivevano in compagnia di altri, ma tornati a casa, dalla famiglia che li aspettava con ansia, rimanevano in un angolo, traumatizzati, e pieni di astio contro i parenti che non avevano fatto di tutto per liberarli prima, contro il governo, contro i comunisti; siccome non possono vendicarsi, odiano. Questo fa loro male e dopo pochi mesi muoiono.

Perdonando sempre tutti, cercando di amare tutti e di mettere così in pratica la vita a cui ero stato formato, non solo sono sopravvissuto ma sono rimasto nella pace e nella gioia. Ecco perché mi sembra che dobbiamo curare sempre la nostra formazione e quella dei giovani che si preparano al sacerdozio: se le fondamenta sono buone, la casa regge tutti i colpi della vita e se la manutenzione è accorta essa resterà sempre bella e capace di accogliere e donare la vita.

-> mancanza di unità nei criteri pastorali

La terza difficoltà che incontriamo per costruire la comunione è la mancanza di unità nei criteri pastorali. A proposito del dono dello Spirito costituito dai nuovi movimenti ecclesiali, si deve evitare il rischio che vivano isolati o a margine della vita ecclesiale e dei programmi diocesani. A proposito della convergenza delle forze pastorali, il rischio dei cammini paralleli o diversi tra gli agenti attivi nell’ambito dell’evangelizzazione è molto delicato ed esige umiltà e un grande sforzo di rinnovamento e di correzione.

Quando si è vissuta un’esperienza di Chiesa perseguitata, si comprende quanto sia importante l’unità nella fede. Fa più male alla Chiesa la divisione interna tra i battezzati che la stessa persecuzione da parte dei suoi nemici.

La mancanza di unità nella fede genera sofferenze e compromessi dolorosissimi per tutti. Quando la Chiesa è in pace non si dovrebbe mai dimenticare questo insegnamento che le viene dai tempi delle persecuzioni.

Dobbiamo rispettare le diversità senza mai sacrificare la comunione. A partire dall’unico Vangelo dobbiamo sapere dare risposte diverse a sfide diverse in profonda sintonia con tutte le forze che operano nella Chiesa al servizio dell’evangelizzazione.

Vi supplico in nome di Dio di cercare sempre l’unità anche a costo di sacrificare il vostro proprio io. L’individuo passa, la Chiesa resta. Noi possiamo e dobbiamo morire a noi stessi, la Chiesa deve vivere per portare a tutti la luce delle genti nello splendore della sua comunione.

Quando siamo divisi facciamo molto male. Si racconta che un giorno vennero tre persone a pregare davanti a Gesù. Arrivò per primo un cattolico e gli chiese di distruggere tutti i protestanti perché, se non fossero più esistiti, i cattolici avrebbero potuto essere felici e servirlo bene. Per secondo, giunse un protestante che supplicò Gesù di distruggere tutti i cattolici che pensano di essere nella verità ma sono nell’ignoranza. Fu, infine, il turno di un ebreo a cui Gesù disse che, se voleva, poteva chiedere qualcosa. L’ebreo rispose che non voleva pregare. Allora Gesù gli chiese cosa facesse lì e l’ebreo rispose che aspettava. “Cosa aspetti?” chiese Gesù. “Aspetto che tu esaudisca quei due, rispose l’ebreo, così sarò felice”.

-> carenza di coscienza della missione nei laici

La quarta difficoltà sulla via della comunione è costituita dal clericalismo e dalla carenza di coscienza nei laici della loro identità e missione.

Esiste ancora un forte clericalismo desideroso di condividere le responsabilità con i laici, compresi i rischi di una cultura maschilista che discrimina in vari modi l’esercizio della vocazione che spetta di diritto alle donne nelle comunità ecclesiali.

Essendo stato privato per molti anni dell’esercizio visibile del mio ministero, posso dire di comprendere dal di dentro la situazione di coloro che, preti o laici, non possono esprimere pienamente la ricchezza della loro vocazione. A tutti dico di valorizzare l’offerta continua a Dio di ciò che sono o fanno o possono fare. Alla Chiesa intera dico di essere attenta a valorizzare l’apporto di ciascuno nella sua specificità. La diversità dei doni non è una minaccia ma una ricchezza per la comunione.

Ecco perché i laici non devono avere paura di discernere e vivere pienamente quanto lo Spirito ha loro donato. Noi dobbiamo educarci all’ascolto e al discernimento dei carismi per integrarli nella pienezza del dialogo ecclesiale e dell’azione comune al servizio del Vangelo.

Anche il riconoscimento e la promozione del ruolo della donna nei processi decisionali della comunità sono valori a cui dobbiamo educarci sull’esempio di Gesù che ha avuto un rapporto di grande libertà e verità con le donne.

Papa Giovanni Paolo II ha visto queste divisioni nella sua vita, nella Chiesa, adesso, anche nei movimenti talvolta così meritevoli della Chiesa, ma divisi tra di loro. Uno esclude l’altro o si fanno cose parallele e molti parroci si sentono a disagio. Per questo motivo, nella festa della Pentecoste del 1998, Giovanni Paolo II ha radunato tutti i movimenti ecclesiali in piazza San Pietro e ha parlato loro raccomandando di lavorare insieme perché sono divisi e ciascuno tiene a dire di essere più fedele al Papa, di essere più amato dal Papa.

L’anno seguente, su iniziativa di alcuni movimenti principali, – Sant’Egidio, i Focolarini – si sono riuniti in Germania, nel giorno della Pentecoste del 1999, quarantaquattro movimenti che si sono impegnati a lavorare insieme. Un gran passo che si è potuto fare per l’unità dei movimenti.

-> indebolimento del senso della comunione

Quest’ultima difficoltà mi sembra che sia costituita dall’indebolimento del senso della comunione e dalla conseguente mancanza di passione missionaria, quando la gioia di essere uno in Cristo non è coltivata.

Va scomparendo anche lo slancio nell’annunciare agli altri la bellezza del Signore. Dove, invece, questa gioia è sentita si intensifica anche la passione missionaria. 

Ricordo che, quando ero in carcere, la donna che mi portava da mangiare mi recò un giorno un piccolo pesce avvolto nella carta di un giornale; scoprii, con grande sorpresa, che si trattava dell’Osservatore Romano che la Santa Sede manda ai Vescovi ma che il governo confisca e poi vende come carta. Lavai quel foglio per togliergli l’odore sgradevole, lo feci asciugare al sole e poi lo custodii come una reliquia poiché mi era apparso come un messaggio che mi recava la notizia che la Chiesa mi amava: non ero solo, la comunione universale mi sosteneva. Ciò mi diede nuova carica e slancio nel rendere testimonianza della mia fede che consentì a tanti, anche ad alcuni dei miei carcerieri, di cominciare a capire e forse ad amare Cristo e la Chiesa.

Non si può procedere senza la comunione e lo spirito missionario che vanno dunque insieme l’uno sostenendo e alimentando l’altro; non dimentichiamolo mai nel coltivare la nostra spiritualità di comunione e il nostro impegno nella missione perché altrimenti mancheremmo di credibilità e le nostre omelie non sarebbero ascoltate dal popolo. La gente direbbe che predichiamo la carità ma non ci amiamo.

3. Imparare a vivere la comunione 

-> Via della preghiera

La grande via per superare le difficoltà indicate e imparare a vivere la spiritualità e la comunione è la via della preghiera e dell’unione con Dio. È lo spirito che infonde nei nostri cuori la carità del Padre (Rom 5,5) ed è lui l’agente, il suscitatore continuo della Koinonia di cui parla il Nuovo Testamento.

Vi è un’immagine molto bella che descrive la Chiesa come la luna. Nella notte essa brilla non di luce propria ma di luce riflessa, quella del sole che è Cristo. Quanto più si lascia baciare dai suoi raggi, tanto più si illumina la notte del cuore umano e della storia. La preghiera, specialmente nel suo culmine e nella sua sorgente che è la liturgia, ma anche nella sua preparazione e dilatazione che è la preghiera personale, è il luogo in cui ci lasciamo inondare dalla luce del sole, Cristo, per diventare capaci di vivere la comunione e di annunciare il Vangelo della comunione.

La preghiera ci aiuta a convertirci a Cristo, sorgente vera della nostra comunione. Vorrei leggervi una preghiera che scrissi quando stavo in carcere:

“La comunione è un combattimento di ogni istante.

La negligenza di un solo momento può frantumarla; basta un niente;

un solo pensiero senza carità,

un pregiudizio ostinatamente conservato,

un attaccamento sentimentale,

un orientamento sbagliato,

un ‘ambizione o un interesse personale, 

un ‘azione compiuta per se stessi e non per il Signore…

Aiutami, Signore, a esaminarmi così: qual è il centro della mia vita?

Tu oppure io?

Se sei Tu, ci raccoglierai nell’unità.

Ma se vedo che intorno a me pian piano tutti si allontanano e si disperdono, 

questo è il segno che ho messo al centro me stesso”.

Durante l’ultimo Sinodo alcuni vescovi, parlando dei vescovi emeriti, hanno proposto al Santo Padre di stabilire, se possibile, una regola che consentisse a tali prelati di lavorare nella diocesi fino a ottant’anni. Molti dicono che il termine di settantacinque anni è indicativo per chiedere il trattamento di pensione ma se uno ha la capacità fisica e spirituale di lavorare ancora può continuare a farlo. Il Santo Padre lo vuole perché il numero dei vescovi emeriti nel mondo è attualmente alto. Ma è meglio non fissare il termine a ottant’anni perché vi sono casi personali in cui tutti aspettano che il vescovo si ritiri a settantacinque anni, anche se è molto robusto…

-> Relazione fraterna

Vi è un altro aiuto per vivere l’unità e la relazione fraterna. Noi sacerdoti e vescovi facciamo fatica ad avere amici. Siamo abituati a relazioni verticali, con i superiori e con quelli che vediamo come gregge a noi sottoposto e non a relazioni orizzontali di sincera e semplice fraternità. Imparare a coltivare l’amicizia è una vera scuola di comunione.

Quando, nel 1967, divenni vescovo un amico francese mi scrisse dicendomi che, ormai non avrei avuto più amici e non avrei più conosciuto la verità poiché nessuno avrebbe osato offendermi, ma avrei avuto sempre dei buoni banchetti, per cresime, Messe, con accanto delle persone anziane e sorde! I vescovi devono pensare a questo. Devo però dire che gli eventi della vita mi hanno tolto a lungo i banchetti ma mi hanno dato tanti amici che mi hanno detto la verità. Il carcere dove si pativa veramente la fame è stata una scuola di amicizia, di fraternità con le persone più diverse

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Non dimenticatelo: sul ponte dell’amicizia passa Cristo. Bisogna cercare di avere amici veri e sapere essere amici. C’è chi vuole avere amici ma non essere amico. Quando un sacerdote si sente a disagio, significa che è isolato, che non comunica molto con i suoi confratelli.

Ho visto, in alcune canoniche, che il parroco e l’assistente mangiano guardando la televisione senza parlare. Sono sfortunati e condannati a vivere insieme.

C’era un vescovo in Brasile non amato dai sacerdoti al punto che una volta, alla fine di una riunione, nessuno di essi lo salutò. L’indomani il vescovo, durante la celebrazione della Messa, chiese loro perdono se aveva fatto qualcosa contro di loro, ma i sacerdoti, pur non essendo solo del vescovo la responsabilità della situazione, non lo perdonarono e continuarono a non parlargli per tutta la giornata. La sera, quel vescovo, che è un buon vescovo, andò davanti a ogni stanza a bussare alla porta, chiedendo perdono a ciascun sacerdote. Il gelo finì e si ristabilirono rapporti di affetto.

Anche con i confratelli abbiamo tanti problemi e i santi ne hanno più di noi. Sapete meglio di me quanto don Bosco abbia sofferto con i suoi confratelli e così anche Jean-Marie Vianney. Si sa che un giorno alcuni sacerdoti scrissero una lettera al vescovo denunciando il parroco Jean-Marie Vianney che, pur non conoscendo bene la teologia e non avendo approfondito gli studi, osava fare catechismo ai loro fedeli e confessarli. Il sacerdote, incaricato di portare il messaggio al vescovo, preso da pietà per Vianney, volle prima passare da lui per mostrargli l’esposto. Jean-Marie Vianney, dopo averlo letto, aggiunse in calce alla lettera di condividere pienamente quanto era scritto circa la sua ignoranza. Il latore del messaggio a questo punto, non sapendo più che fare, riportò la lettera ai confratelli che, dopo aver letto l’aggiunta di Vianney, conclusero che era proprio un santo!

Nonostante tutto, perfino contro ogni difficoltà e resistenza, Dio mi ha fatto la grazia di non mancare di carità verso i miei carcerieri e verso i responsabili della mia ingiusta prigionia. Questo mi ha fatto crescere nella comunione e mi ha dato tanta pace. l carcerieri, alla fine del mio periodo di prigionia, mi hanno raccontato che, quando ero stato condannato all’isolamento, i capi della polizia avevano destinato cinque persone alla mia sorveglianza, due per volta da cambiare ogni due settimane, e avevano ordinato di non parlarmi perché avrei potuto contaminarli. Io parlavo ma loro non rispondevano. Dopo due settimane, le guardie vennero chiamate dai capi che comunicarono loro che non sarebbero state più alternate con altre onde evitare che quel vescovo – pericoloso – contaminasse tutta la polizia. È soltanto l’amore che fa questo.

I due carcerieri rimasero con me nove anni. Un giorno volevo tagliare del legno per farne una croce e chiesi ad uno di essi, diventato poi mio amico, di poterlo fare. Mi disse che era proibito ma me lo lasciò fare ed io nascosi la croce nel sapone. Quando vi erano i controlli dicevo che si trattava di sapone per il bagno e così la croce rimase lì intatta fino alla mia liberazione e dopo l’ho fatta ricoprire con del metallo. Ciò che è prezioso è che sia stata fatta con la complicità dei comunisti contro i loro superiori.

-> amare i poveri

Infine, amate molto i poveri, quelli che nessuno ama. Chi ama veramente il povero, non lo ama per la gratificazione che ne riceve, ma perché vi riconosce la dignità del fratello per cui Cristo è morto. I poveri sono i nostri maestri nella via del Vangelo, e sanno dare molto più di quello che si possa pensare. Come dice l’Instrumentum laboris per il recente sinodo dei Vescovi, dedicato alla figura del “Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo”, “lo stesso san Paolo aveva come punto fermo del suo apostolato la cura dei poveri, che resta per noi il fondamentale segno della comunione tra i cristiani” (lnstrumentum Laboris, n. 123). Amare i poveri è amare Cristo, che in essi si presenta al nostro cuore (Mt 25,31ss). E chi ama Cristo, si lascia amare da Lui ed impara a vivere l’amore, nonostante tutto, perfino contro ogni difficoltà e resistenza. Come vi ho già detto, Cristo mi ha fatto la grazia di non mancare mai di carità verso i miei carceri eri e verso i responsabili della mia ingiusta prigionia: e questo mi ha fatto crescere nella comunione e mi ha dato tanta pace.

Specialmente per i vescovi questo appello alla spiritualità di comunione diventa un invito pressante ad esercitare la collegialità, in cui siamo stati inseriti con la grazia della nostra ordinazione: come ci ha insegnato il Vaticano II, inseriti nella successione del collegio apostolico i Vescovi fanno parte del collegio episcopale intorno al Successore di Pietro, che ne è il Capo universale. 

La collegialità – nello spirito del Concilio – non è solo una realtà giuridica, ma una vera forma di spiritualità, che esige prontezza all’ascolto reciproco, sincerità di rapporti, sollecitudine di ciascuno e di tutti per il bene di tutte le Chiese. 

Senza questa comunione collegiale gli anni della prigione sarebbero stati per me un’esperienza tragica di abbandono del mio gregge: sapendo, invece, che gli altri Pastori mi erano solidali, mi sentivo anche sicuro che le mie pecore non sarebbero state lasciate sole. Così, credo, debba essere sempre, nei tempi di pace come in quelli di prova: la comunione collegiale fra i vescovi aiuta la Chiesa ad essere sulla terra l’icona vivente dell’amore trinitario!

Lo sperimentiamo in modo particolare quando abbiamo la grazia di vivere la concelebrazione eucaristica: è allora che avvertiamo come sia Cristo il Pastore che ci unisce e ci invia insieme ad essere i suoi testimoni fino ai confini della terra. La celebrazione di ogni giorno diventa così l’appuntamento in cui imparare sempre di nuovo a vivere nella comunione e a crescere nella comunione.

Un giorno il Pastore Roger Schutz mi ha detto che quando visitò il Patriarca Athenagoras, gli parlò della comunione, e accompagnandolo alla porta, prima di congedarlo, fece il gesto della elevazione del calice, per dire che è lì che si attinge la comunione e l’unità. Non dimentichiamolo mai, miei carissimi fratelli! 

Il Signore ci conceda di capire il senso di quel gesto e di far nostra la preghiera dello stesso Athenagoras, con cui mi piace concludere: “Bisogna riuscire a disarmarsi. lo questa guerra l’ho fatta. Per anni ed anni. È stata terribile. Ma ora, sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché l’amore scaccia la paura. Sono disarmato dalla volontà di spuntarla, di giustificarmi a spese degli altri. Non sono più all’erta, gelosamente aggrappato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se me ne vengono proposti altri migliori, li accetto volentieri. O piuttosto, non migliori, ma buoni. Lo sapete, ho rinunciato al comparativo… Ciò che è buono, vero, reale, dovunque sia, è il meglio per me. Perciò non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. ‘Chi ci separerà dall’amore di Cristo?’. Ma se ci disarmiamo, se ci spogliamo, se ci apriamo al Dio-uomo che fa nuove tutte le cose, allora è lui a cancellare il passato cattivo e restituirci un tempo nuovo dove tutto è possibile”. Amen!

Sia lodato Gesù Cristo!