La fede dei figli dei martiri sconfessa gli accusatori di Dio

Protestano i copti egiziani contro le autorità che li vogliono difendere. E lo fanno con forza, perché non vogliono essere difesi al prezzo di non partecipare più alla Messa. Infatti, dopo che è stata ordinata la chiusura della chiesa della Vergine Maria e di san Paolo, in Kedwan, causa l’alto rischio di attentati, la comunità copta di tre diversi villaggi (Kedwan al-Baharyia, Kedwan al-Keblyia, Masaken Kedwan.) che frequentava la chiesa (circa 1.300 persone) ne ha implorato la riapertura.

Il vescovo ortodosso Minya Anba Makarios ha fatto pressioni sul governo per lo stesso motivo, spiegando che le autorità, intimorite dalle minacce islamiche, preferiscano sacrificare la libertà di culto dei cristiani che invece sono disposti a rischiare anche gli attacchi pur di continuare ad incontrare Dio nell’Eucarestia. Il vescovo ha poi sottolineato che è vergognoso che il governo locale “invece di dire che la difesa è una prerogativa delle istituzioni dello Stato o che la preghiera è un diritto, affermano invece che bisogna ostacolarla”.

Impressiona la fede dei copti che continuano a dare testimonianza ad una chiesa occidentale dalle basiliche vuote e che, solo per paura di perdere consenso (non di venire martirizzata), teme persino di proclamare le verità cristiane. Settimana scorsa un altro squarcio di luce in una situazione in cui la fede è duramente messa alla prova è giunto sempre da queste chiesa di martiri. A parlare della morte di suo padre, ucciso durante il penultimo attentato alla chiesa di san Pietro e Paolo al Cairo, nel dicembre del 2016, è stata una quindicenne di nome Marian che ha cominciato così: “Era incredibilmente felice”. Mariam ricorda così suo padre Nabil, 45 anni, la mattina del giorno del suo martirio. La ragazzina ha descritto le persone in panico che scappavano dalla chiesa dopo l’esplosione causata da un kamikaze: ”Misi la sua testa sul mio grembo… mi chiese di prendermi cura di mio fratello e mia sorella più piccoli. Poi chiuse gli occhi e sorrise in pace, il suo volto splendeva. E andò in Paradiso”.

La fede granitica di questa ragazzina, il cui padre era corso dietro al kamikaze musulmano per cercare di fermarlo, emerge ancora nelle dichiarazioni successive: “Sento che mi dice (il padre, ndr) che non sono sola, che Gesù è con me. Ho provato un incredibile sostegno in tutto questo tempo. E ho sperimentato l’amore confortante della comunità cristiana”. Ancora: “Dio prende, ma Lui dà indietro molto di più”. Non potrò mai ripeterlo abbastanza e voglio che i giovani in tutto il mondo lo sappiano. Dio è amore. Dio è buono. Dio è misericordioso. L’ho sperimentato nelle mie ore più difficili”. Anche il figlio di 10 anni di una vittima dell’attentato di maggio a Minya contro alcuni cristiani in pellegrinaggio verso il monastero di san Samuele il confessore, ha raccontato la fede del padre: “Gli hanno chiesto chi era e di professarsi musulmano. Si è rifiutato dicendo che era Cristiano. Gli hanno sparato”.

Viene in mente una riflessione di Joseph Ratzinger del 1973 pubblicato nel 2014 dalla casa editrice tedesca Herder: “È curioso infatti che l’affermazione che non può esserci più alcun Dio, che Dio dunque è totalmente scomparso, si levi con più insistenza dagli spettatori dell’orrore, da quelli che assistono a tali mostruosità dalle comode poltrone del proprio benessere e credono di pagare il loro tributo e tenerle lontane da sé dicendo: «Se accadono cose così, allora Dio non c’è». Per coloro che invece in quelle atrocità sono immersi, l’effetto non di rado è opposto: proprio lì riconoscono Dio. Ancora oggi, in questo mondo, le preghiere si innalzano dalle fornaci ardenti degli arsi vivi, non dagli spettatori dell’orrore”.

di Benedetta Frigerio