Getta le reti… e troverai!

Mi immagino Gesù risorto, sulla riva del mare di Tiberiade, fermo a guardare con tenerezza quel

pescatore lontano da terra solo un centinaio di metri (Gv 21). Uno che, da quella barca, tante volte ha gettato le sue reti e le sue speranze nel mare della vita.

Quel lago è stato il mio piccolo mondo per tanti anni, immerso nell’atmosfera popolare di una borgata di provincia. Fin da piccolo ho respirato i valori dell’impegno e del rispetto, della condivisione e del sacrificio. La fede, trasmessami quasi per osmosi dai miei genitori e dai miei nonni, ha segnato il ritmo naturale della mia infanzia e adolescenza.

Il loro credere era semplice e autentico di chi si affida a Dio senza troppe domande. Io invece, di interrogativi ne avevo sempre tanti: ricordo, ad esempio, che quando capii che mia sorella Lisa era una bambina diversa, cerebrolesa, chiesi a Gesù come mai non mi aveva dato una famiglia “come quelle della pubblicità”, e costruivo il mio mondo perfetto di mattoncini Lego dove immaginavo di essere un eroe dei fumetti. Mentre io mi vergognavo di Lisa, la mamma e il papà testimoniavano un amore incondizionato per lei. Anche se potevo vantare voti altissimi in pagella, alla scuola dell’amore mi sono ritrovato ad essere “un alunno alquanto distratto”.

Affascinato dalle rilucenti acque del mondo ho trascorso la mia gioventù gettando le reti alle varie sirene del momento: è stato il periodo delle discoteche e dei locali alla moda, ballando al ritmo degli stereotipi e degli status symbol. È stato un tempo in bilico, disposto a spogliarmi dei valori tradizionali per vestirmi dell’approvazione degli altri, senza però, perdere mai l’immagine del “bravo ragazzo”, che nel fondo, non era maschera ma il richiamo costante alla verità. Erano gli anni delle superiori, tra i banchi di scuola e i compiti a casa: mi sentivo capace, e lo ero, di raggiungere i miei obbiettivi, senza chiedere aiuto a nessuno. Ambivo a una carriera brillante, che consideravo una via per il successo, per avere prestigio ed essere “qualcuno”. Era anche il tempo del culto del corpo in cui, per promuovere il mio “ritratto”, avrei anche venduto l’anima, come Dorian Gray. I miei modelli erano gli attori di “Beverly Hills 90210” le cui storie patinate erano copioni da replicare; pensavo fosse appagante noleggiare un amore per un giorno, rimandando al futuro quello vero. Sempre nuovi personaggi in scena, l’importante era spremere la vita, cogliere l’attimo; e il giorno dopo, avere un episodio nuovo da raccontare, con l’illusione di poter riavvolgere e cancellare ciò che non piaceva. Ma quello che iniziava a non piacermi ero proprio io, il mio egoismo, la mia ipocrisia, il vuoto che sentivo dentro.

L’incontro con Gesù avviene dopo questa lunga notte “inutile”. Lui è stato sulla riva paziente; tante volte aveva provato a chiamare, ma io non ero riuscito a decifrare, confusa tra le altre, la sua voce. L’occasione è stata quella di un pellegrinaggio a Medjugorje, proposto dalla mia famiglia come “regalo di Natale”. Io non volevo assolutamente andare, mi sembrava una proposta da “sfigati”; ma il Natale si passa in famiglia, quindi… Sono bastate poche ora nella “terra di Maria” a rivoluzionare il mio cuore, a convertirlo al Signore, a mostrarmi il cammino della Vita. Questo perché, la Via che cercavo da sempre, era ora davanti ai miei occhi in tutta la sua Verità. Egli mi chiedeva da mangiare, come ai discepoli sul mare di Tiberiade; anche se le mie reti erano vuote ero gioioso perché lo potevo riconoscere: «È il Signore!». Avevo cercato la vita nello studio, nel piacere, nel riconoscimento degli altri. Avevo scimmiottato la felicità fino a quel giorno. Non ho esitato all’invito di gettare «la rete dalla parte destra della barca»; sentivo che mi potevo fidare.

Da quel momento è stato un crescendo di esperienze e di incontri importanti: ho iniziato a frequentare un gruppo di preghiera, ad essere autentico nelle mie relazioni con gli altri, a testimoniare il mio incontro con il Signore. Per me è stata una rinascita, finalmente diventavo me stesso. In questo gruppo di preghiera ho conosciuto il primo Legionario di Cristo, p. Hernán Jiménez. Questa figura sacerdotale mi ha affascinato, ha contribuito, con la sua gioia e preparazione, a mostrarmi la bellezza della donazione totale a Cristo. Ma ha prodotto pure l’“effetto pendolo”: se prima non avrei mai pensato di essere sacerdote perché non volevo “sprecare la vita”, adesso pensavo che non sarei mai diventato sacerdote perché questo era solo per persone “sante” come il Padre e io mi consideravo un indegno peccatore. Grazie a P. Hernán sono entrato nel Movimento Regnum Christi che ho sentito come “mio” fin da subito. Sono stati gli anni dei viaggi e delle valige. Dal “piccolo Lago di Tiberiade” sono salpato per nuovi mondi: in Messico per le missioni estive, in Canada e a Colonia per la GMG, Roma e Dublino; d’improvviso i miei stretti orizzonti si sono dilatati. Ho potuto toccare le necessità del mondo, imparare dai poveri che volevo aiutare, condividere la fede con amici veri, formarmi. Senza rendermi conto, ero diventato meno egoista e più felice.

Sperimentavo l’amore di Dio, la sua presenza come luce che guidava i miei passi. Ringrazio la mia fidanzata di allora che, con il suo amore, mi ha aiutato a guardare la vita sotto questa nuova luce. È merito suo se in quel momento ho potuto riabbracciare mia sorella Lisa, vedendola anch’io, per la prima volta, come un dono. Mentre io la rifiutavo, lei pure era sulla riva con Gesù ad aspettare: “perché lui è mio fratello Stefano e io gli voglio bene”. Gli anni trascorsi insieme sono stati per me fondamentali, hanno contribuito a farmi diventare quello che oggi sono; perché l’amore sempre costruisce e sempre rimane. Alle soglie del nostro matrimonio, con una laurea in Architettura in tasca, i primi lavori e un viaggio-studio a Dublino, il Signore ha nuovamente sorpreso tutti, me per primo. Ancora dovevo ascoltare la sua voce che mi invitava a gettare le reti in un nuovo mare.

Di ritorno da un’esperienza estiva in Irlanda, il Signore aveva acceso nel mio cuore il desiderio di offrire un anno della mia vita come collaboratore proprio nel Regnum Christi. Una scelta controcorrente, perché significava “uscire dal mondo del lavoro” per un anno e rimandare i progetti di matrimonio. Ma nel mio cuore era chiaro che dovevo fare questo passo, che era Lui che me lo chiedeva e per me era una risposta di generosità a Lui che mi aveva donato tanto, dovevo ricambiare. In questo contesto, durante gli Esercizi Spirituali di inizio anno, ho ascoltato chiaramente la sua voce che mi chiamava a lasciare tutto e seguirlo. Questo è successo dopo la confessione, nella quale ho presentato a Gesù tutta la mia storia di peccato; in quel momento la sua misericordia a spazzato via tutto, persino le mie barriere sul sacerdozio e mi sono sentito totalmente vulnerabile al suo amore. Lui mi ha chiesto cosa ero disposto a dargli e io ho risposto “tutto Signore”. Ho subito capito che era una vocazione autentica, perché io non la volevo, non l’avevo mai cercata né desiderata. Mi ha aperto a una gioia mai sperimentata prima, come qualcosa a cui anelavo da sempre e non conoscevo ma che era profondamente mio. Qualcosa come un vuoto che, né il mondo prima, né il grande amore poi, era riuscito a colmare.

Questo ha segnato un grande momento di crisi, non per il dubbio sulla chiamata, ma per le conseguenze di questa sulle persone che più amavo: la mia ragazza e la mia famiglia. Ma nel fondo del cuore ero sereno, perché sapevo che non era qualcosa che avevo cercato io, ma veniva da Dio e per questo dovevo fidarmi di Lui.

Ricordo come fosse oggi il giorno del mio ingresso nella Congregazione dei Legionari di Cristo. È stato come “arrivare a casa”, entrare per la prima volta in un luogo che sentivo appartenermi da sempre. Non significa che tutto sia stato facile, ma succede come quando sei innamorato: sei disposto a tutto e niente sembra impossibile. Avevo 27 anni, e questa vita così diversa, per tanti versi opposta alla mia precedente, è stato un nuovo inizio a tutti gli effetti.

Questo “2.0” lo vedevo come una opportunità per ricominciare; mi sentivo emozionato e ispirato come un pittore davanti alla tela bianca. Le varie tappe di formazione si susseguivano con nuove cose da imparare e nuove opportunità. L’ambiente internazionale delle nostre comunità e la possibilità di studiare in Italia, Spagna e Stati Uniti ha aperto i miei orizzonti ancor di più. Un percorso “lineare”, potremmo dire, fino a quel fatidico giorno newyorchese.

All’ombra della “grande mela”, una mattina come tutte le altre mentre scorreva l’acqua della doccia, scopro un nodulo al collo. Il cancro, senza chieder permesso, senza nessun sintomo o preavviso, era entrato nel mio corpo. È stato come un “undici settembre” che si schiantava sulla mia vita, facendo crollare in un istante tutti i miei sogni e progetti, lasciandomi solo e nudo davanti al cielo. Allora stavo studiano filosofia a New York, con l’entusiasmo dell’esperienza americana, con la gioia di conquistare il mondo per Cristo. Ora, con la mia vita spezzata tra le mani e il pianto agli occhi, mi chiedevo quale fosse il senso delle rinunce per abbracciare il sacerdozio, della fatica per prepararmi a una gara che non avrei mai corso. Non capivo perché Dio avesse accartocciato quel progetto che però continuavo a sentire così reale nel mio cuore. La sua risposta non tardò ad arrivare erano le parole che prima aveva rivolto a Pietro sulla riva: «Stefano, mi ami più di costoro?». Amare di più non significa essere superiore agli altri, ma diventare chicco di grano che muore per dare frutto: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Non sapevo se la chemioterapia avrebbe funzionato ma nel mio cuore c’era la pace e l’abbandono. Ero pronto a lottare, ancora una volta e con tutta la mia grinta; ma se Lui mi avesse voluto in cielo, avrei accolto la sua volontà. Il cammino percorso mi ha insegnato ad amare e questa è la meta. La gara della vita si gioca ogni giorno, e ogni giorno la vinci se impari a donarti.

La felicità della guarigione non mi ha allontanato però, dalle corsie degli ospedali; quello stesso anno ricevo una telefonata che mi avvisa che mia mamma è in fin di vita a causa di una improvvisa emorragia celebrale. I medici non danno speranze e io mi ritrovo a sorvolare l’oceano illudendomi di poterla trovare ancora in vita al mio arrivo. Capivo, in quel momento, che la sofferenza sulla tua pelle può essere dura ma è tremendamente più grande quella provocata dal rischio di perdere chi ami, perché ti senti totalmente impotente.

Dopo un miracoloso intervento chirurgico si riaccende la speranza. Seguono due mesi di coma, fiumi di preghiere, lacrime e paura, l’emozione indescrivibile di quando ha riaperto gli occhi. Oggi la mamma è rimasta in sedia a rotelle, si chiede se quella riflessa nello specchio sia veramente lei, bisognosa di tutto e di tutti. Poi si fa coraggio e impara a scoprire la vita di nuovo, a non dar niente per scontato, ad essere orgogliosa di mio padre e a innamorarsi ancora di lui che è il suo sostegno e la sua forza.

Il cammino verso il sacerdozio è qualcosa di incredibile. La possibilità di conoscere Lui nella meditazione e nell’adorazione; poter penetrare la Sacra Scrittura, avere vicino a te persone che condividono la stessa missione con gioia e allegria, è soprattutto un dono immeritato. Nasce da una chiamata e può essere solo vissuto come risposta.

Ringrazio il Signore, per le notti inutili di pesca che sono state necessarie per capire la Via; per le tante, tantissime esperienze vissute, le persone incontrate, l’amore ricevuto e i buoni esempi che mi hanno ispirato; ringrazio anche per gli sbagli e le cadute, la luce di Cristo ha rimarginato le ferite trasformandole nella mia forza.

Posso dire che uno diventa sacerdote in ginocchio, nella preghiera e nel ringraziamento; ma soprattutto accogliendo la vita ogni giorno, la sua bellezza e le sue difficoltà; ascoltando le persone, soffrendo e gioendo con loro, facendosi vulnerabile alle loro storie che nascondono il disegno della misericordia di Dio.