San Leopoldo Mandic, il ‘piccolo’ grande confessore

«La sera prima di morire, nonostante i tormenti della malattia, padre Leopoldo stava ancora in confessionale ad accogliere i penitenti. Sono stato uno degli ultimi a entrare nella sua cella per confessarmi, come facevo tutte le sere dopo cena». Parla con molta difficoltà, ma è ancora lucida la memoria di fra Barnaba Gabini.

Siamo andati a incontrare questo cappuccino quasi centenario, friulano di Lestizza (Udine), nel convento di Conegliano, dove risiede da dieci anni, perché è uno degli ultimi testimoni in vita ad aver conosciuto l’umanità e la mansuetudine di padre Leopoldo Mandic, il piccolo-grande confessore di origine dalmata, beatificato nel 1976 da Paolo VI e canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1983, le cui spoglie in occasione del Giubileo saranno esposte dal 5 all’11 febbraio nella basilica di San Pietro, a Roma, assieme a quelle di padre Pio.

Fratel Barnaba era un giovane novizio quando alla fine degli anni Trenta lo incontrò la prima volta entrando nel convento di Santa Croce a Padova. «Ricordo che si rivolgeva a me chiamandomi toso, cioè ragazzo in dialetto, e che fu lui a incoraggiarmi al momento della mia professione con pochissime parole. Non l’ho mai sentito lamentarsi della malattia che lo stava consumando. Era sempre al confessionale e fuori c’era la fila per confessarsi da lui. Accoglieva tutti con amore, incondizionatamente. Ed era così ben disposto nei confronti di chi chiedeva perdono al Signore, che qualcuno dei confratelli cominciò ad accusarlo di dare troppo facilmente l’assoluzione. Per questo i miei superiori negarono ai seminaristi la possibilità di confessarsi da lui».

fra Barnaba Gabini

L’anziano cappuccino, cinquant’anni in Friuli prima di arrivare nel 2006 a Conegliano, riporta anche un episodio profetico, testimoniato in sede del processo per la canonizzazione di padre Mandic: «Un giorno un penitente padovano, amico di padre Leopoldo, andando da lui, lo trovò in preda a un pianto disperato. Interrogato, il santo rivelò che quella notte aveva avuto una orribile visione: il Signore gli aveva mostrato l’Italia precipitata in un mare di fuoco e sangue», prevedendo in altri termini i drammatici eventi bellici che avrebbero straziato il nostro Paese alcuni anni dopo.

Il santo in seguito profetizzò pure il bombardamento della città di Padova, precisando inoltre che sarebbero stati colpiti anche il convento e la chiesa dei cappuccini, ma che la celletta si sarebbe miracolosamente salvata. Tutto ciò puntualmente avveratosi il 14 maggio del 1944, confermando la fama di preveggente del piccolo frate dalmata, che nel frattempo era morto da due anni.

Padre Giuseppe Ungaro, francescano conventuale del Santo a Padova, di anni ne ha 97, e nella sua vita ha avuto la singolare fortuna di incontrare ben sei tra santi e pontefici: padre Pio, padre Massimiliano Kolbe, papa Luciani, papa Giovanni XXIII, papa Giovanni Paolo II, che furono anche suoi confessori. Incontrò pure padre Leopoldo a Padova. «Veniva ogni mercoledì a confessare i frati al Santo; lo faceva spesso in dialetto per mettere a suo agio chi gli stava davanti. Prima andava a pregare davanti alla tomba di sant’Antonio. Cosa che ripeteva alla fine delle confessioni. Ricordo che per strada talvolta i ragazzini si prendevano gioco di questo religioso bassissimo di statura (solo un metro e 35 centimetri) e la cosa lo faceva un po’ soffrire. Era così umile, poi, che si vergognava di farsi accompagnare al Santo in automobile».

 A proposito della larghezza di cuore e della mansuetudine proverbiale del cappuccino, padre Ungaro, biografo di san Leopoldo, racconta un episodio della vita del giovane Mandic che spiegherebbe l’origine del suo peculiare stile di confessore: «All’età di otto anni fu fatto inginocchiare in mezzo alla chiesa come penitenza da un sacerdote. E promise a se stesso che non si sarebbe mai comportato così, se fosse diventato prete». E ancora: «Il suo modo di confessare assomigliava molto a quello di padre Pio. A volte la sua misericordiosa comprensione veniva scambiata per lassismo, per mano troppo larga. Un giorno accolse un fedele a cui un penitenziere della basilica aveva negato l’assoluzione. Lo mandò perdonato. E incontrandosi, in seguito, con quel frate inflessibile gli motivò la sua scelta differente con una sola frase: “Lei, padre, confessa con la sua coscienza; io con la mia”».

Un’altra volta ebbe a rispondere: «Io troppo largo? Chi è stato largo? È stato il Signore il primo a esserlo: mica io sono morto per i nostri peccati, ma il Signore. Più largo di così col ladrone e con gli altri come poteva essere?».

Sarà proprio padre Giuseppe a redigere il testo che ricorderà la figura del santo quando il 17 febbraio le sue reliquie passeranno per la basilica di Sant’Antonio, prima del rientro al convento di Santa Croce.