“Lei confessi con la sua coscienza, io lo faccio con la mia!”

Era umile, prima di tutto. «Così umile che da anziano, quando non riusciva più ad arrivare a piedi fino al Santo, come aveva sempre fatto, si faceva portare in auto fino a Prato della Valle e poi faceva a piedi l’ultimo pezzo, per non dare scandalo». Era buono, poi. «Ma così buono, come confessore, che il vescovo era arrivato a proibire ai frati di confessarsi con lui.

Però tutti quelli che gli parlavano, dopo tornavano a casa felici. Sapeva dare serenità e gioia. Arrivavano da lontano per incontrarlo, fino al giorno prima che morisse. Ha confessato decine di migliaia di persone, tantissimi malati». Padre Giuseppe Ungaro ha 97 anni, una memoria infallibile («Ma la alleno», dice), due occhi profondi come la storia e, a parte un’atrofia alla gamba sinistra, un fisico invidiabile. «Merito della vita che faccio, ringrazio Dio ogni giorno».

Lui è l’ultimo frate ad aver conosciuto padre Leopoldo, morto nel 1942, ora santo celebrato a Roma, per volere di papa Francesco, insieme a padre Pio. Del quale padre Giuseppe è stato amico personale, «come del resto di altri cinque santi», si affretta a precisare il frate, in un moto di umanissimo orgoglio. Segue elenco: padre Kolbe, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Padre Giuseppe vive al Santo da 46 anni, prima è stato addetto alle missioni per 32 anni e prima ancora, tra le altre cose, parroco a Sabaudia dove ha conosciuto Pio. È padovano doc, battezzato al santuario dell’Arcella dove ha sentito la vocazione a 10 anni. «Volevo partire per le missioni. Ma poi fu proprio padre Pio, durante una confessione, a predirmi che la mia missione sarebbe stata in Italia. Ed è quello che faccio ancora: porto la mia testimonianza dappertutto e dove vado lascio i Testi», racconta.

Era novizio, padre Giuseppe, quando cominciò a incontrare padre Leopoldo. «Ma come novizio non potevo andare da lui a confessarmi, perché era troppo semplice e buono. Noi eravamo assegnati a confessori più duri», ricorda padre Giuseppe. «Ogni mercoledì veniva al Santo, andava all’altare maggiore poi nella cappella dove confessava per ore, poi tornava all’altare e poi andava a casa. Così per anni. Arrivava a piedi, si lamentava dei ragazzi che lo prendevano in giro perché era piccolo e un po’ sciancato. Ma aveva una bontà infinita. E quella misericordia che è la straordinaria alchimia di quattro forze: la sensibilità, la compassione, la pietà e la carità». È la misericordia che papa Francesco chiede con questo Anno Santo. «Ed è quella che ogni cristiano dovrebbe avere verso gli altri», aggiunge padre Giuseppe, «perfino verso un jihadista. Non c’è un nemico nel mondo, ci sono persone che sbagliano e per loro c’è la giustizia».

Padre Leopoldo assolveva tutti, la sua storia è piena di aneddoti perfino divertenti. «Una volta diede l’assoluzione a un uomo al quale il rettore del Santo l’aveva appena negata. E il rettore se lo trovò davanti alla comunione. Quando questo poi rimproverò a Leopoldo l’assoluzione, lui risposte: “Lei confessi con la sua coscienza, io lo faccio con la mia”. Ma nella sensibilità con cui confessava, nell’attenzione che ci metteva, era come padre Pio. In comune avevano una carità infinita e quelle tante ore passate a confessare, anche 14 al giorno. Portavano pace. Anche padre Kolbe era così: mi metteva le mani sulle ginocchia e mi parlava come un padre. Lui mi strappò un voto, mi impegnai a non fumare. Ma poi dovevo andare in Albania, dove era obbligatorio fumare, e dovetti fare un altro voto per recitare un rosario».

Di rito bizantino, greco e russo, padre Giuseppe aveva in comune con Leopoldo lo sguardo verso Oriente. «Lui sognava l’unificazione dei cristiani con gli ortodossi. Ci siamo arrivati con Paolo VI, ci voleva tempo. La chiesa è in cammino, non è statica. E oggi papa Francesco la conduce bene verso i nuovi tempi, mi piace molto, fa la pastorale casa per casa, come è giusto».

Di questa ostensione a Roma, che eleva Pio e Leopoldo a testimonial della misericordia, padre Giuseppe dice che è un’occasione per far riflettere soprattutto i ragazzi sull’importanza della confessione. «Ma Leopoldo a Roma non ci sarebbe andato», conclude. «Lui dalla sua celletta non si muoveva».

di Cristiano Cadoni Tratto da Il Mattino di Padova