È nata stamattina. Da zero a uno, come è possibile, come si può immaginare?

Un’amica mi manda un Whatsapp con una foto della sua ultima nipote. È nata all’alba, due ore fa, in una città lontana. È bellissima, perfetta, e già è evidente – nonostante tutte le storie che ci raccontano – che è una femmina. Che è una bambina, nelle linee aggraziate, nell’armonia del piccolissimo ovale.

Guardo la foto e penso che è incredibile: nove mesi fa di questa bambina non c’era niente, nulla sulla faccia della terra – e ora, guardate.

 Vorrei rifare il suo viaggio a ritroso, da una notte apparentemente come le altre; da un punto infinitesimale, da un microscopico incrocio, da una scintilla, che sprigionò qualcosa che non c’era. E subito quell’affollarsi di cellule, apparentemente disordinato, in realtà antichissimo e sapiente: due, quattro, otto frammenti che si aggregano, veloci, in un impercettibile palpito. Nella lente di un microscopio le diresti cose, materia; eppure quell’ordito prende forma, ed è già il primitivo abbozzo di un uomo, curvo, ripiegato su se stesso.

Ogni ora e giorno che passa si aggiunge un particolare; si dividono le cellule, precise, obbedienti, disciplinate operaie. Quelle due prominenze saranno le braccia, lì cresceranno le mani. Nel buio più segreto si forma il labirinto del cuore, complessa casa di celle e di valvole; e già nel silenzio del ventre materno un apparecchio sensibile può distinguerne il suono. Tumpf: batte i primi passi il cuore di un uomo, che forse batterà fra cent’anni. E ancora, forse, la madre non sa, non immagina nemmeno. (Singolare: ciò che di più grande possiamo fare, lo facciamo senza accorgercene).

È lento eppure vertiginoso, il cammino nel buio. Dallo zero all’uno, la distanza è razionalmente incolmabile. È che c’è quell’attimo, quella frazione di secondo che sfugge alla matematica: come il dito di Dio e quello di Adamo che si toccano, nella Cappella Sistina. Ed ogni giorno poi somiglierai di più a un bambino, inequivocabilmente: la bocca, gli occhi, le dita si disegneranno come da sé, nell’oscurità – mentre tua madre, magari, dorme. Il tessitore non ha bisogno di niente: né di luce, né di creta, né di strumenti. Conosce il suo disegno a memoria, e procede, né veloce né adagio: col tempo che ci vuole, e che lui sa da sempre.

Fra madre e figlio intercorrono silenziosi segnali, messaggi in codice; la voce di lei, il ritmo del suo respiro è la volta del cielo, per colui che cresce. E infine questa simbiosi deve spezzarsi, è la legge. Dal buio fondo alla luce che acceca, dal tepore al freddo: e dov’è lei, dov’è il battito del suo cuore? Nascere, forse, per qualche istante, somiglia a morire. Ma ora di nuovo dormi sul suo petto, e ti culla il suo respiro. Da zero a uno, come è possibile, come si può immaginare? Dorme il figlio, spossato da quel viaggio infinito. La madre ne spia i lineamenti, si intenerisce a vaghe somiglianze. Ma il mistero più grande è che nove mesi fa, di quel figlio non c’era niente; e ora c’è, e, se ti fermi a pensarci, di tutti i miracoli è il più strabiliante.