«La più bella delle avventure». A Lecco la mostra su don Augusto Gianola

Inaugurata giovedì scorso presso il Comune di Lecco la mostra dedicata a padre Augusto Gianola, missionario del Pime morto 25 anni fa all’età di 60 anni, rimarrà aperta fino al 21 novembre. La sua vicenda, che raggiunse l’apice della notorietà quando Enzo Biagi lo incontrò e intervistò dopo molte resistenze nel 1989, è stata riassunta dal cardinale di Milano Angelo Scola, suo personale amico,

così: «In lui possiamo riconoscere, sia pure combinati in un modo del tutto singolare (ma per chi non è così?), tutti gli inconfondibili tratti della santità».

IMPOSSIBILE OPPORSI.

Primo di cinque figli, di cui tre religiosi, Augusto nasce nel 1930 a Laorca di Lecco, dove sin da piccolo è noto a tutti per la sua personalità estroversa e incontenibile. Anna Maria, sua sorella e suora carmelitana, dice di lui: «Fin da piccolo sentiva il fascino di Dio, ma invece di essere “pio” nel senso tradizionale, era vivacissimo (…) ricordo bene che aveva questo chiodo fisso di voler conoscere Dio». A 15 anni Augusto sente che quel Dio che tanto cerca lo chiama a dargli tutta la vita, perciò domanda di entrare in seminario. Di fronte all’opposizione del padre, Augusto risponde marinando la scuola a cui preferisce la barca, il nuoto e le gite in montagna. Finché sua madre, donna dalla fede profonda, si rassega: «Non possiamo più opporci alla sua vocazione».

Continua la sorella Anna Maria: «Era talmente vivace e insofferente a ogni regola che tutti in paese si lamentavano di questo». Eppure, spiega don Romeo Peja, suo compagno di seminario, «amava molto il Signore, alla sua maniera, ma lo amava davvero. Ricordo che lo vedevo spesso pregare a lungo, faceva lunghe adorazioni (…) anche se in seminario ne combinava di tutti i colori». Come quando, per movimentare il clima all’arrivo del cardinale Ildefonso Schuster in seminario, accende un fumogeno rischiando l’espulsione.

Insieme Romeo, Augusto va spesso a scalare e, quando l’amico si lamenta, lo riprende così: «Quando saremo preti dovremo soffrire altro che questo. “Prendi e taci”». Per questa e molte altre stranezze qualcuno lo considera «solo come un originale, un ribelle. Ma era fedele alla preghiera, scalava le montagne con il Breviario e il Rosario nello zaino». Padre Piero Gheddo parla di lui come di un missionario «fuori da ogni riga (…) ha fatto molti sbagli. Ma anche questo prepotente esplodere, non stare mai dentro nessuna regola, finisce per condurre a Dio, a Gesù Cristo, al Vangelo».

UN BENE NON COMUNE. 

Nel 1953 Gianola viene ordinato sacerdote e dal 1954 al 1961 è viceparroco a Locate Varesino. Poi, nel 1961, è nominato coadiutore a Verano Brianza dove resta solo anno, fino a quando, dopo sua lunga insistenza, il cardinale Giovanni Battista Montini gli permette di diventare missionario del Pime.

«Anna Maria prega perché io debbo farmi santo», scrive alla sorella prima di entrare nell’istituto missionario. Il primo anno di formazione non è facile, eppure, come si legge nella valutazione finale, il sacerdote «accetta con umiltà sincera (…) di emendarsi le osservazioni che gli si fanno. Se continua a farsi guidare, potrà fare un bene non comune». Don Augusto parla di quell’anno come di un periodo da cui vuole «uscire cambiato (…) sono entrato qui come una bestia selvaggia mi devono pur ammansire». Tanto che, sempre alla sorella monaca, fa sapere: «Sto ritrovando il senso della mia vita, l’idea forza che non è la missione o qualsiasi altro bene apostolico, ma solo Dio e la sua volontà».

Nel novembre 1963 Gianola finalmente parte per l’Amazzonia, di cui dirà: «Quanto è brutta l’Italia a questo riguardo, quanto è monotona. Qui c’è un anticipo di quel che sarà il Paradiso (…) un popolo che in genere fa pena. Però è un popolo che prega e quindi è più felice di noi. Le chiese piene mattina e sera, molte comunioni. Tanti uomini in chiesa, gente giovane. Qui la gente forse non sa ben vivere, però sa morire».

Ma quando viene nominato parroco della cattedrale di Parintinis confessa «un peso che mi opprime: la previsione di dover stare qui in parrocchia (…) io che desideravo una vita diversa (…) io che ero nemico dell’organizzazione (…) eppure se facessi quel che mi piace, cosa guadagnerei? (…) Se tutti mi volessero bene ma non recassi nessun grado di santità alle loro anime? Se non mi santificassi io, cosa sarei venuto a fare qui?»

LA CROCE E LE PROVE. 

Non per questo al sacerdote mancano momenti di scoraggiamento: «Signore sento che vado incontro alla croce (della solitudine, dell’insuccesso, forse dell’incomprensione). Aiutami a non tornare indietro (…) ho lasciato un mondo di amici per un mondo di ignoti (…) fare il missionario è più difficile che fare il prete in Italia. Almeno per dei poveracci come me. È la fede, prima ancora della carità la virtù del missionario e io ne ho così poca (…) Signore aumenta la mia fede».

Una preghiera quella di Gianola che si fa carne nell’abbraccio ai lebbrosi, nella preghiera con ubriachi e prostitute e nel farsi povero fra i poveri conducendo alla fede la popolazione nativa normalmente diffidente. Il sacerdote si immedesima a tal punto con gli indigeni caboclos, da riuscire a radunare le loro famiglie disperse su vasti terreni intorno a una cappella, vicino cui costruisce una scuola, l’ospedale, i saloni comuni e avviando il mercato. Ma sacrificio continuo di Gianola non lo rende esime dalle difficoltà, perché «la scelta della verginità non rende aridi, ma suscita un’umanità più ardente e quindi sottoposta a tutte le tentazioni».

Anche l’esperienza dell’innamoramento è vissuta come una prova che può avvicinarlo a Dio: «Sono sempre giorni di battaglia, ma Dio è ancora con me lo sento (…) sento che l’affare sentimentale è ormai risolto. Resta il problema di vedere come riempire il mio cuore. Mio Dio perché non vieni tu? Perché c’è ancora troppo “io” lo so, ma ti permetto di mettere in azione la tua onnipotenza, anche la più dolorosa, pur di uccidere questo io».

UN SUCCESSO CHE NON BASTA. 

Il sacerdote sembra non essere mai soddisfatto, tanto che nel 1974 lasciala la missione per ritirarsi da solo nella foresta, dove conduce una vita incentrata sulla preghiera e il sacrificio. «Vent’anni di sacerdozio mi hanno fatto capire che (…) ci vuole molta più fede, molto più amore di Dio (…) per poter dare davvero Dio al popolo. Oltre tutto io, col malesempio, a volte ho dato il diavolo».

Un anno dopo Gianola esce dall’eremo per andare ad assistere il parroco di Urucara, sul Rio delle Amazzoni. Qui, in pochi anni, fonda 30 comunità agricole.

Prima di morire dirà: «Stavo in una comunità finché non era ben avviata, poi (…) andavo in un’altra comunità più arretrata e ricominciavo il lavoro. Sono sempre fuggito dal progresso, perché il progresso mi fa paura».

Il sacerdote vuole educare i caboclos, dediti alla pesca, a lavorare la terra, battendosi affinché divengano proprietari dei terreni che coltivano. Ma pur lottando negli anni in cui la teologia della liberazione dilaga, si dice convinto che la rivoluzione vada fatta «non con Marx», ma con «il Vangelo». Riguardo al suo vescovo e ad altri padri missionari scrive che «sono rivoluzionari e vogliono a tutti i costi che il popolo sia contro il governo», mentre «io vivo in mezzo al popolo e il suo linguaggio non è rivoluzionario. L’idea della rivolta violenta è importata (…) loro protestano, incitano alla rivoluzione (…) noi dialoghiamo e obblighiamo le autorità a venire incontro alle necessità dei caboclos. Noi otteniamo parecchio, loro non ottengono nulla».

Gianola convince i funzionari governativi ad ascoltarlo invitandoli nelle comunità e trattandoli con lo stesso amore con cui tratta gli indigeni. Più tardi il governo brasiliano riconoscerà che il modello delle comunità agricole da lui avviate è esemplare. Ma padre Augusto non si accontenta: «I coloni sono cresciuti, hanno più soldi, ma la loro fede è aumentata?». La mattina istituisce quindi la preghiera comune e prima di cominciare il lavoro la lettura del Vangelo. Eppure il missionario non si sente adatto a condurre un’opera divenuta enorme: affaticato dalle invidie e dagli stessi caboclos, che facendo progressi si fanno attirare dalla città e dal consumismo, da cui Gianola, contrario all’arricchimento e all’abbandono della vita semplice, li ha sempre messi in guardia: «Appaiono i soldi – constata – e il cuore dell’uomo ne è accecato».

MANIE DA SANTI. 

Nel 1985, dopo aver percorso in canoa il Rio delle Amazzoni, un viaggio mai intrapreso da nessuno prima (remando in media 10 ore al giorno), parte per Lisbona in aereo e inizia un pellegrinaggio a piedi verso Fatima, raggiungendo sempre a piedi Lourdes per una promessa fatta alla Madonna. Giunto in Italia visita alcuni monasteri benedettini, dove pensa di restare, ma poi decide di tornare in Brasile. Qui sceglie ancora una volta di ritirarsi e di vivere la vita eremitica.

Ai familiari che dicono di non approvare le sue scelte, scrive che in fondo si oppongo per stare tranquilli. Alla sorella Pinuccia, suora della Carità dell’Assunzione, scrive: «Aspettati qualcosa da me, anche grossi sbagli, ma sempre verso l’alto». Gianola sa bene che molti non comprendono il suo modo di vivere, ma non gli importa, perché «qui nel mondo ci si appoggia a molte cose che non sono di Dio, sono speranze fondate sui soldi, sulla gente, sulle forze del progresso. A me piace invece fare esperienza di una fede totale, che dipende solo da Dio».

Gli ultimi anni della sua vita sono spesi nell’eremo di Paratucù: «Questa è un’avventura diversa e finale, cioè il finir bene la mia vita così sconclusionata, il prepararmi a morire, tentare l’avventura più bella che è quella di rispondere con amore a Dio che da 56 anni mi chiama con amore (…) sono vicino, lo sento, a quel tesoro per cui vale la penna di vendere tutto, dare un calcio al mondo e correre fra le sue braccia!».

Nel 1989, per volontà del suo vescovo, abbandona di nuovo l’eremo. Scopre poi di aver contratto la lebbra e subito dopo gli viene diagnosticato il cancro. Nel 1990 torna in Italia per curarsi. Qui molti giovani lo incontrano e rimangono affascinati dalla radicalità di Gianola. Ma la situazione si aggrava e il 24 luglio 1990 il sacerdote muore nella sua terra natale, proprio quella che aveva voluto abbandonare per cercare la “dimora eterna”. Come scrive in una lettera ai nipoti: «I santi erano pazzi con una sola idea in testa e una volontà fissa in quell’idea», ma «io non sono qui per cercare Dio, ma per lasciarmi trovare, penetrare conquistare da Lui. E devo dirvi che è così, finalmente l’ho trovato».

Tratto da Il Timone