Ghika, morto martire per le torture del regime comunista rumeno, è «un testimone vivente del Deus caritas est»

Il 31 agosto 2013 è stato beatificato a Bucarest dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, monsignor Vladimir Ghika (1873-1954), sacerdote e uomo di grande carità, martirizzato dalla polizia politica della Romania comunista ad ottant’anni suonati.

Proveniente da una famiglia nobiliare di religione ortodossa, Vladimir Ghika nacque a Costantinopoli, il giorno di Natale del 1873. Fu subito battezzato e cresimato nel rito di questo Patriarcato “Ecumenico” e, dopo aver studiato da giovane in Francia, dove percorse tutto il suo iter scolastico, si trasferisce a Roma, dove consolida quel cammino di conversione al Cattolicesimo già intrapreso prima. Dovette quindi subire forti pressioni contrarie della sua famiglia d’origine ma, nel 1902, a 28 anni, fa il suo ingresso ufficiale nella Chiesa cattolica, con l’atto di fede nella basilica romana di Santa Sabina all’Aventino. Ottiene quindi nel 1906, sempre a Roma presso il collegio San Tommaso, la laurea in filosofia e un dottorato in teologia, con l’intento di farsi sacerdote.

Ordinato sacerdote a 50 anni, Ghika vive quindi il resto della sua vita «tra malati, poveri, bisognosi, vagabondi, detenuti», cercando di indicare «nella carità la strada per cui cattolici e ortodossi potevano incamminarsi per tornare insieme». Quando il giovane Ghika è ricevuto in udienza da Pio XI, viene da questo grande Pontefice incoraggiato nella sua vocazione, e sollecitato ad impegnarsi soprattutto nel campo della carità e dell’apostolato dei laici. Papa Ratti lo definì appunto «Il grande vagabondo apostolico», per sottolinearne la instancabile attività missionaria. Pio XI lo nominò quindi protonotario apostolico e, «in tale veste prese parte a molte missioni in diversi Paesi del mondo: viaggiò in Africa e in America latina, si recò in Giappone e in occasione dei congressi eucaristici fu tra l’altro anche a Sydney, Dublino, Buenos Aires, Manila e Budapest».

Per il suo grande operato sociale in patria Ghika fu costantemente tenuto sott’occhio dal regime comunista rumeno che, alla fine, finì per imprigionarlo alla veneranda età di 80 anni. Il 18 novembre 1952, infatti, mentre si reca al capezzale di un moribondo, è improvvisamente arrestato. Gli agenti della Securitate gli strappano la veste, lo tengono per quasi un anno al freddo, con i soli indumenti intimi e lo sottopongono a più di ottanta interrogatori notturni, durante i quali è picchiato fino a fargli perdere la vista e l’udito. È quindi torturato con la corrente elettrica, perché confessi d’essere una spia del Vaticano oppure rinunci all’unione con Roma. Nonostante sia un anziano e fragile prete, Ghika non si piega davanti ai patimenti ed anzi la sua dignità e fede sono un esempio per gli altri prigionieri. L’anziano prigioniero è abbandonato in una cella di cinque metri per sei dove erano già ammassate 44 povere vittime del regime comunista, che egli non si stancava di ascoltare, confortare, confessare ed aiutare a pregare. Al freddo, senza cure e con cibo scarso, il 16 maggio del 1954 Ghika è trasportato però nell’infermeria del carcere dove è abbandonato e lasciato morire seminudo.

Non ancora diventato sacerdote cattolico, Ghika aprì a Bucarest il primo dispensario gratuito per i poveri, diede vita ad un grande sanatorio intitolato a San Vincenzo de Paoli e, al suo interno, attivò la prima ambulanza operante allora nel Paese. Assistette quindi le vittime della guerra dei Balcani nel 1913 e, successivamente, migliaia di malati di colera. Il suo raggio d’azione superò i confini nazionali perché durante la prima guerra mondiale si occupò di missioni diplomatiche umanitarie, delle vittime del terremoto di Avezzano, dei tubercolotici di un ospedale di Roma e dei numerosi feriti di guerra delle varie nazioni belligeranti. Durante il secondo conflitto mondiale rimase in Romania, rifiutando di lasciare il Paese per stare con i poveri e gli ammalati. Visitava i detenuti nella prigione alla periferia di Bucarest per confortarli durante i bombardamenti e celebrare per loro la Santa Messa.

Fu a questo punto, nel periodo cioè della sua più intensa azione sociale, che Ghika elaborò la “liturgia del prossimo”, a proposito della quale scrisse: «Doppia e misteriosa liturgia: il povero vede Cristo venire a lui sotto le specie di colui che lo soccorre, e il benefattore vede apparire nel povero il Cristo sofferente, sul quale egli si china. Ma, per ciò stesso, si tratta di un’unica liturgia». «Infatti – aggiungeva il Beato -, se il gesto è compiuto come si deve, da ambedue i lati c’è soltanto Cristo: il Cristo Salvatore viene verso il Cristo Sofferente, e ambedue si integrano nel Cristo Risorto, glorioso e benedicente». Secondo Ghika, in questo modo la liturgia eucaristica, già celebrata sull’altare, si prolunga nella visita ai poveri. In un certo senso, si tratta di «dilatare la Messa nella giornata e nel mondo intero, come onde concentriche che si propagano a partire dalla comunione eucaristica del mattino».

“Principe nel mondo, sacerdote di Cristo”: così ebbe a definirlo Jacques Maritain, che lo conobbe personalmente a Parigi. Il nonno del sacerdote rumeno, infatti, Gregorio Ghika X, fu l’ultimo principe regnante della Moldavia. Il padre, invece, era stato ministro della Difesa e degli Esteri del Regno di Romania, poi ministro plenipotenziario a Costantinopoli presso il Sultano, a Vienna, a Roma e a San Pietroburgo in Russia. La madre di mons. Ghika, infine, Alessandrina Moret de Blaremberg, era all’inizio del Novecento fra le più illustri nobildonne francesi.

Il giorno dopo la sua beatificazione, Domenica 1° settembre 2013, papa Francesco ha reso omaggio a monsignor Ghika con queste parole: «Ieri a Bucarest è stato proclamato beato Vladimir Ghika, sacerdote diocesano, nato a Istanbul e morto martire a Bucarest nel 1954. […] Rendiamo grazie a Dio per questi esemplari testimoni del Vangelo!». Anche l’Arcivescovo di Bucarest monsignor Ioan Robu, rievocando la sua luminosa figura, ha definito il Beato «un testimone vivente del Deus caritas est», «un “principe” per nascita che ha seguito la via regale della Croce, diventando per scelta un “mendicante” di amore per Cristo, con la convinzione che non amiamo Dio come si dovrebbe se nel nostro amore verso di lui non riusciamo a farlo amare anche dagli altri».