Tra le sbarre il fiore del perdono – E il boss incallito si inginocchiò davanti al prete

Tre cappellani di tre carceri del Nord e del Sud. E le loro tre storie di perdono. Storie di morte e risurre­zione, storie nate del dolore e nell’ingiustizia che poi, a poco a poco, sanno aprirsi alla speranza. Percorsi mai facili, spesso tortuosi, sempre dolorosi. Perché per­donare gli altri, per un cuore generoso ed educato, è dif­ficile ma non impossibile: accade.

Più arduo è ‘perdona­re’ Dio, quando lo si ‘prega’ con la preghiera straziante di chi gli urla la propria rabbia, come fa il protagonista del­la storia narrata da don Virginio Balducchi: «Perché ha permesso che uccidessi? Perché non mi ha fermato?». La pace è assai più difficile, quando deve fare i conti con il dono più meraviglioso e terribile di Dio all’uomo: la libertà. Ma difficilissimo, quasi impossibile è perdonare se stessi, riconciliarsi con il proprio passato. Terribile è il perdono – per il protagonista della storia narrata da don Marco Pozza – da negare o concedere a tua madre che ti ha ab­bandonato accanto a un cassonetto a quindici giorni di vita, condannandoti a un’esistenza a metà, ad affetti am­putati, a un cuore zoppo. E difficile, a volte, è per le istitu­zioni fidarsi, accettando che ‘criminali incalliti’ decida­no per un diverso futuro, come i detenuti della sezione d’alta sicurezza della storia narrata da don Raffaele Sar­no. Quando però il perdono zampilla, la festa è immen­sa. 

Chiamiamola Pasqua…

Chi da sempre vive da criminale, e criminali sono i suoi pensieri, e frequenta solo altri criminali, beh, la sua vi­ta è molto, molto difficile da comprendere per noi. Im­possibile, forse. Appartengono a un mondo totalmente diver­so. Così rimasi stupito quando mi chiamarono… 

Ero appena arrivato. Loro erano cinque detenuti dell’alta si­curezza, la sezione della criminalità organizzata: mafia, ca­morra, ’ndrangheta, sacra corona unita. Un altro mondo. Però mi chiamano. Hanno tutti pene pesanti da scontare, fino a 20­25 anni. Lo ammetto: detenuti così li immaginavo ‘senza spe­ranza’. Ma loro no. Eppure la disperazione sarebbe stata una tentazione facile.

Loro invece mi cercavano. Avevano già cominciato un percor­so, capace di dare un senso a tutti quegli anni da trascorrere in carcere. Ma quel percorso sentivano che aveva bisogno di ‘vi­sibilità’, di una forma di rico­noscimento anche di fronte al­le istituzioni. La voglia di ri­scatto non poteva rimanere confinata nei loro cuori. 

Era un gruppo vero e proprio, per quanto piccolo, quindi bi­sognava darsi un nome: ‘Il la­ghetto pensatore’, con il trat­tino tra ‘la’ e ‘ghetto’, perché erano acqua capace di ospita­re e dare vita, ma erano anche, oggettivamente, rinchiusi. E il ‘pensatore’? Pensiero, ossia ri­flettere sui propri personali percorsi criminali e maturare un futuro fatto di riscatto e rein­serimento. Cominciava così un percorso umano, culturale e anche spirituale, scandito da periodici incontri personali. 

Riprendono in mano i libri. Riescono a ottenere il diploma, al­cuni si iscrivono all’università. Avevamo un giornalino, ‘In co­munione’, un fatto eccezionale per l’alta sicurezza. Ogni me­se riuscivo a farlo pubblicare come inserto centrale nel setti­manale diocesano. Di una cosa ero soprattutto orgoglioso: non era fatto di piagnistei, come purtroppo accade in tanti fogli si­mili. Invece grondava ottimismo, a partire dall’atteggiamento critico e da una chiara presa di distanza dalle scelte criminali del passato. E poi c’era il teatro, testi scritti da loro, un pubbli­co fatto di studenti. 

Poi tutto è finito. Alcuni di loro sono stati trasferiti, l’alta sicu­rezza smantellata; e le istituzioni faticavano a reagire, di fron­te a un percorso così proficuo e limpido. Forse non credevano abbastanza in loro… Con molti ho mantenuto i contatti. Uno è fuori, in semilibertà, e lavora. Ne sono felice. 

Il perdono lo vedevo e vedo in loro. Nel desiderio di reinserir­si, nella richiesta di aiuto. Perdonateci, e dateci credito. Perdo­nateci, e offriteci un’altra possibilità. 

(Storia raccontata da don Raffaele Sarno, Trani) tratto da Avvenire