La Comunione e i divorziati risposati

Nel segno della speranza

La Chiesa e i divorziati risposati: molti ne parlano ma pochi conoscono la vera dottrina cattolica sull’argomento. Il Timone ristabilisce in questo articolo tutta la verità, senza scorciatoie. Ma anche senza disperazione.

di Mario Palmaro, da Il Timone (05/2010)

La posizione della Chiesa nei confronti dei fedeli divorziati è molto chiara. Ma quanti la conoscono veramente?

Basta ascoltare i discorsi della gente per accorgersi che equivoci, fraintendimenti ed errori clamorosi sono assai diffusi: si confondono situazioni oggettivamente molto diverse tra loro, in un tripudio di luoghi comuni e di nozioni raccogliticce orecchiate dalla Tv o spigolate su qualche giornale sfogliato dal parrucchiere. Questa situazione dipende certamente da una diffusa superficialità in materia di fede e di morale, alla quale non sono estranei gli stessi credenti. Ma è anche conseguenza di colpevoli omissioni da parte di coloro che nella Chiesa hanno il compito di insegnare e di “pascere” il gregge affidato da Gesù. Non è raro infatti sentirsi dire che “queste cose ormai si sanno”, e che – per ragioni pastorali, per carità, per rispetto umano – “è meglio non parlare di queste cose nelle prediche o nella catechesi”. Il risultato è che i fedeli in realtà “queste cose non le sanno”, o le sanno in modo approssimativo, ignorando le precise indicazioni del Magistero e soprattutto le ragioni che stanno alla base di questo rigoroso insegnamento.

Il fatto è reso ancor più grave dalla enorme diffusione del divorzio nella nostra società, al punto che quasi tutti ormai hanno almeno un parente o un amico o un collega che vive un fallimento matrimoniale e che, come si usa dire, “si rifà una vita” con un altro partner. È dunque ancora più urgente sapere che cosa la Chiesa dice esattamente, anche per poter fare davvero del bene a coloro che si trovano in questa profonda sofferenza umana e spirituale. Anche per questi fratelli, infatti, Cristo ha parole di speranza. Anche per loro il bene proposto dal Vangelo è possibile.

Luoghi comuni e mala fede

La gente sa in maniera assai vaga che se sei divorziato non puoi ricevere la Comunione. Così capita che ci siano dei divorziati erroneamente convinti di essere colpiti da questa preclusione, mentre in realtà il divieto si riferisce ai divorziati risposati, cioè a coloro che hanno contratto matrimonio civile dopo aver celebrato un precedente matrimonio valido. E ancora: la maggior parte delle persone non sa che anche ai divorziati risposati la Chiesa offre una strada per ritornare alla Comunione. Di più: in alcune parrocchie si va diffondendo l’idea che ogni divorziato risposato decide in coscienza se vuole fare la Comunione, e che nessuno, tanto meno il sacerdote, può interferire in questa scelta. Altri pensano che i divorziati risposati siano degli scomunicati. E in generale si ritiene che la Chiesa escluda questi fedeli dall’eucarestia con un intento punitivo. Come vedremo in questo articolo, tutti questi luoghi comuni sono davvero molto lontani dalla verità. Sono lontani dal vero anche quei cattolici che inveiscono contro la Chiesa, colpevole di “discriminare” i fedeli divorziati. Un atteggiamento di ribellione davvero singolare, soprattutto se assunto da coloro che magari per anni hanno snobbato la vita cristiana, la Messa domenicale, la confessione, le devozioni, e che improvvisamente “riscoprono” una sospetta “fame eucaristica” proprio nel momento in cui – per loro libera scelta – si sono messi in una condizione irregolare.

L’atteggiamento della Chiesa

I divorziati risposati possono pensare che la Chiesa provi nei loro confronti disprezzo. Nulla di più falso: i pastori sono chiamati ad accogliere questi fedeli «con carità e amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio». Sono le parole testuali dell’autorevolissima Congregazione per la Dottrina della Fede, che nel 1994 ha inviato a tutti i vescovi del mondo un documento sulla materia. La Congregazione – allora guidata dal Cardinal Ratzinger – aggiunge che i pastori devono suggerire a questi fedeli «con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione». In queste parole c’è tutto il Magistero: la carità di Cristo, la maternità della Chiesa, la possibilità di lasciare alla spalle il male per fare il bene.


Il giudizio della Chiesa

Comprendere non significa però giustificare. La misericordia è autentica solo quando procede insieme alla verità. Ed è per questo che vescovi e sacerdoti hanno il dovere (non quindi una generica possibilità discrezionale) di richiamare ai fedeli divorziati la dottrina della Chiesa, in particolare sulla ricezione dell’Eucarestia. Qual è questa dottrina? Eccola: «Fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura questa situazione».

Una punizione?

Qualcuno può pensare che questa norma contenga una pena, inflitta ai divorziati per sanzionare la loro condotta. Non è così. Nella Familiaris consortio (1982) Giovanni Paolo II spiega limpidamente che il rifiuto della Comunione deriva da due fondamentali ragioni: la prima, che consiste nella oggettiva condizione in cui si trovano questi fedeli, che non sono in grazia di Dio; la seconda, che é di ordine pastorale, perché se queste persone fossero ammesse all’eucarestia ne deriverebbe una grave confusione per i fedeli, indotti in errore circa la dottrina della Chiesa sulla indissolubilità del matrimonio. I vescovi e i sacerdoti dovranno inoltre compiere ogni sforzo affinché venga compreso bene che questa disciplina è frutto «soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo».

Chi decide?

Secondo qualche sacerdote, la disciplina della Chiesa su questa materia si risolverebbe in una classica questione di coscienza. Poiché valutare la giusta disposizione d’animo a ricevere l’eucarestia spetta normalmente al singolo fedele, anche in questo caso sarebbe il divorziato risposato a dover decidere che fare. Con la conseguenza pratica che, sempre secondo taluni sacerdoti, «se un fedele si presenta a fare la comunione, io ho il dovere di dargliela in ogni caso, anche se so che è un divorziato risposato». Questa posizione non è conforme all’insegnamento della Chiesa, che impone un “grave dovere a tutti i pastori”. Qual è questo obbligo grave? Quando qualcuno, convivendo more uxorio con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, giudicasse possibile ricevere la Comunione, allora vescovi e sacerdoti – in particolare nel ruolo di confessori – «hanno il grave dovere di ammonire che tale giudizio è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa». Questa dottrina dovrà essere ricordata «anche nell’insegnamento a tutti i fedeli». Dunque ai sacerdoti è richiesta una specifica vigilanza, rispetto ad altri peccati, e la ragione è evidente: il matrimonio è essenzialmente una realtà pubblica.

Nemmeno in certi casi?

Secondo alcuni, in svariati casi bisognerebbe eliminare il divieto di accesso alla Comunione. Tali situazioni particolari sono state evocate dallo stesso documento della Congregazione per la Dottrina della Fede: a. Quando il divorziato risposato era stato abbandonato ingiustamente dal coniuge, pur cercando in ogni modo di salvare il matrimonio; b. Quando il divorziato risposato è convinto in coscienza che il precedente matrimonio sia nullo, pur non potendolo dimostrare nel foro esterno; c. Quando il divorziato risposato si è sottoposto a un lungo cammino di penitenza, ed è assistito da un sacerdote prudente ed esperto. Nel n. 84 della Familiaris Consortio Giovanni Paolo II esorta i pastori a tenere in considerazione queste situazioni, distinguendole da atteggiamenti colpevoli. D’altra parte, il n. 4 del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede usa parole inequivocabili, che non lasciano scampo a interpretazioni lassiste. Anche in questi casi molto particolari, l’accesso alla Comunione non può essere consentito.


Esiste una via di uscita?

A questo punto, i divorziati risposati potrebbero sembrare dei condannati a una sorta di “ergastolo morale”, una gabbia senza scampo. Ma non è così. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (sempre al n. 4, che a sua volta richiama la Familiaris Consortio n. 84 di Giovanni Paolo II, ndr) è anche qui molto preciso: «Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l’acceso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall’assoluzione sacramentale». E a chi può essere data tale assoluzione? «Solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». In concreto ciò significa che i due hanno l’obbligo di separarsi. Ma qualora i due non possono più separarsi, perché ad esempio devono educare i figli, assumeranno «l’obbligo di vivere in piena continenza, astenendosi dagli atti propri dei coniugi». Quindi, due divorziati che vivano “come fratello e sorella” possono accedere alla Comunione «fermo restando l’obbligo di evitare lo scandalo», ad esempio ricevendo l’eucarestia in una chiesa diversa da quella della propria comunità.

La Chiesa potrà cambiare la sua posizione?

No. La prassi di escludere i divorziati risposati dalla Comunione è costante e universale, ed è fondata sulla Sacra Scrittura. Questa prassi è vincolante, e «non può essere modificata in base alle diverse situazioni», poiché «agendo in tal modo la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità».

Due scomunicati?

I divorziati risposati non sono affatto degli “scomunicati”. Questo significa che non sono colpiti da una sanzione grave da parte della Chiesa – come avviene ad esempio nei confronti di chi ha commesso il peccato di aborto volontario – e significa anche che essi devono essere incoraggiati a partecipare alla vita cristiana. In particolare, la Chiesa li incoraggia a non abbandonare la pratica della Messa, anche quando fossero impossibilitati a ricevere la Comunione, perché questa loro partecipazione al sacrificio di Cristo non è senza valore e senza significato. La Congregazione per la Dottrina della Fede nel documento del 1994 li esorta «ad approfondire il valore della comunione spirituale», a pregare, a educare i figli nella fede cristiana, a impegnarsi in opere di carità.

Segnali di speranza

Non ci sono dubbi: un cattolico sincero, trovandosi nella condizione di divorziato risposato, vive nella sua coscienza una sofferenza molto profonda. Le motivazioni umane che lo hanno spinto verso certe decisioni, la forza coinvolgente degli affetti umani, le conseguenze talvolta irrimediabili degli errori, lo avviluppano da ogni parte. È proprio in questa dura prova che il divorziato risposato dovrà resistere ad alcune tentazioni: ribellarsi alla Chiesa; abbandonare la vita cristiana; perdere ogni speranza. Per quanto grave sia la nostra colpa, per quanto ardua sia la strada da percorrere, con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Realmente tutto.

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Né Comunione né scomunica

Monsignor Luigi Negri spiega: il primo dovere della Chiesa è difendere i diritti di Dio, mentre non esiste per nessuno un “diritto ai sacramenti”. I divorziati risposati esclusi dalla vita cristiana? È una menzogna frutto della mentalità laicista e terroristica.

di Roberto Beretta, da Il Timone (09/01/2010)

I giornali lo cercano spesso perché, in genere, le sue parole sono piuttosto lontane dalle maniere moderate e clericali tipiche di tanti altri suoi colleghi e – dunque – «fanno notizia». In effetti a volte le dichiarazioni di monsignor Luigi Negri – teologo e vescovo di San Marino Montefeltro – risultano spigolose, persino rudi; ma di sicuro hanno il pregio di una chiarezza quasi didascalica. E riservano quasi sempre qualche sorpresa anche agli habitués.

Monsignor Negri, cominciamo subito dall’obiezione più comune, fors’anche qualunquista ma con una certa presa pure tra i cattolici: perché tanta intransigenza della Chiesa verso i divorziati non sposati, tanto da essere ritenuta più severa nei loro riguardi che verso altre categorie di peccatori, per esempio i ladri o i disonesti?

Dato e non concesso che sia vera la seconda parte della domanda, e cioè che la Chiesa non usi una bilancia corretta per la gravità dei peccati, non si tratta tanto di intransigenza verso i divorziati, quanto di un dovere nei confronti di Dio. La prima difesa che la Chiesa deve mettere in pratica è infatti quella dei diritti di Dio. La fedeltà e l’unità degli sposi si radicano nella fedeltà di Dio, il matrimonio è un sacramento di Cristo e la Chiesa deve rispettare quanto le è affidato non perché venga manipolato, ma perché si resti il più possibile fedeli al messaggio originario. Bisogna poi dire una cosa molto chiara: sostenere che i divorziati risposati sono esclusi dalla vita cristiana è sbagliato, è il frutto di una mentalità laicista e terroristica; ogni fedele vive nella Chiesa secondo la sua capacità e non è detto che la partecipazione alla vita ecclesiale si debba livellare sulla pratica dell’eucaristia: c’è tutta una gradualità di posizioni, che rispondono a casi in cui ci si può trovare anche per propria volontà. Non possiamo dunque ragionare solo nell’ottica delle condizioni individuali, in quanto c’è pure un coinvolgimento della libertà personale nella scelta di mettersi in una certa situazione; e ognuno deve assumersi le responsabilità delle decisioni che prende. Verso i divorziati che non passano a nuove nozze, difatti, la Chiesa si è ben guardata dal praticare una cosiddetta intransigenza.

Altra accusa ricorrente: il processo di annullamento dei matrimoni cattolici costa molto, è lungo, ottiene esito positivo solo per chi ha conoscenze altolocate e in fondo è solo un “trucchetto” per concedere il divorzio ai soliti privilegiati… Come smentire?

Queste affermazioni fanno parte di una classica “leggenda nera” che va decisamente smontata. La Chiesa è estremamente garantista, conduce processi in cui tutti i fattori vengono tenuti presenti, senza pregiudizio verso nessuna parte. La questione economica poi non si pone proprio: addirittura, a volte è la diocesi che offre il patrocinio d’ufficio e si può fare tutto senza spendere praticamente niente. Il problema è semmai un altro: anche a detta dei due ultimi Papi, nei loro discorsi ai tribunali ecclesiastici, si verifica una certa disinvoltura nella concessione delle nullità matrimoniali. Credo in effetti che ci sia il pericolo che la Chiesa ceda qualche volta con una certa facilità a pressioni massmediatiche o alla mentalità comune. Ma questo va esattamente in senso opposto all’obiezione da cui siamo partiti.

A proposito del divieto di comunicarsi per i divorziati risposati, lei ha scritto: «I sacramenti non sono un diritto acquisito. Nella mentalità di tanti cristiani, a volte, si insinua invece un’idea di rivendicazione sindacale». Certo, si può vivere ed essere cristiani anche senza avere l’eucaristia; però è bello che si aspiri al massimo della comunione, no?

È vero che l’eucaristia è il culmine della vita cristiana. Ma, se mi sono messo consapevolmente e liberamente nelle condizioni di non arrivare su tale vetta, non posso pretendere di farlo a tutti i costi… Nessuno ha diritto a nessun sacramento, tutti sono frutto della grazia di Cristo. E la privazione della pratica sacramentale non è come ad esempio la scomunica latae sententiae per chi fa l’aborto: non esclude la possibilità di fare un’esperienza di Chiesa, pur senza giungere al vertice. D’altra parte nessuno ha costretto questi fratelli a divorziare, tanto meno la Chiesa. E arrivare al punto massimo della liturgia non è un assoluto. Bisogna saper tradurre questo desiderio in preghiera e in sacrificio: la comunione di desiderio, come si diceva una volta.

Dunque per i divorziati risposati non c’è, diciamo così, alcuna scorciatoia.

Devono rimuovere la condizione di irregolarità in cui si sono messi: la nuova situazione affettiva, la cosiddetta nuova famiglia, il matrimonio civile che rende impossibile la partecipazione piena alla vita alla Chiesa; ma non da oggi: da sempre! E dunque la verità è che, in ogni caso, si deve mettere in conto un sacrificio. Per il resto, ribadisco che nella vita della Chiesa esiste una bellissima articolazione di carismi e di possibilità: chi impedisce, per esempio, ai divorziati risposati di vivere in ogni caso un’intensa vita di carità o di preghiera?

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Un divieto benedetto

La Chiesa è “costretta” a escludere i divorziati risposati dalla Comunione e a negare loro l’assoluzione. Lo impongono ragioni teologiche, ma anche pastorali: la “nostalgia” per l’Eucarestia è una spinta potente alla conversione di vita.

di Don Claudio Crescimanno, da Il Timone (05/2010)

L’attacco mediatico contro la Chiesa cattolica ci appare di questi tempi particolarmente feroce, mentre cavalca strumentalmente la “questione pedofilia”. Ma non si tratta certo di un fatto nuovo: il Magistero della Chiesa è sempre sotto attacco, e in special modo sui temi della sessualità, della famiglia, della vita.

La Chiesa discrimina?

Uno dei temi ricorrenti che, dagli anni Settanta in poi, ad intervalli regolari viene riesumato come segno inequivocabile dell’arretratezza culturale della Chiesa e dell’indole discriminatoria della sua morale, è la questione dei divorziati risposati, a cui la Chiesa nega l’assoluzione sacramentale e la Comunione eucaristica. La posizione affermata dai cattolici (quelli veri, naturalmente, cioè quelli che prendono sul serio il Vangelo e il Papa) appare insostenibile ai nostri contemporanei: ad essa, infatti, si ribella sia il “politicamente corretto” sia l’“ecclesiasticamente corretto”. Nella società, infatti, domina una visione culturale pervertita da tre secoli di illuminismo e di positivismo, e una visione politica all’insegna della “statolatria”: in questo contesto è del tutto inconcepibile che una pratica resa legittima da una legge dello Stato possa essere riprovata e fatta oggetto di sanzioni da parte di una qualunque altra realtà, Chiesa compresa. Ma anche all’interno del nostro ambiente non mancano le difficoltà: una buona parte del nostro mondo, infatti, sente il bisogno di archiviare ciò che viene giudicato come intolleranza e rigorismo del passato; ha abbracciato entusiasticamente il nuovo clima di “dialogo” con il mondo, con il rischio tutt’altro che remoto di sciogliersi in esso; e infine concepisce l’ecumenismo come un accantonare tutto ciò che non è condiviso dai “fratelli separati”: è evidente che in quest’ottica non si giustifica il fatto che la dottrina cattolica neghi, in nome del Vangelo, ciò che ortodossi, anglicani e protestanti accettano, cioè la legittimità del divorzio e l’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti: non è forse un’esplicita accusa a tutti costoro di aver tradito il Vangelo? Ecco allora che molti cattolici, chierici e laici, sono diventati, anche su questo, “adulti”, e predicano e praticano tutt’altro rispetto all’insegnamento della Chiesa.


Un insegnamento inevitabile

Ma nonostante l’ostilità che questo produce, la Chiesa non può che continuare a insegnare con serena fermezza che il fedele cattolico, il quale, dopo essersi unito validamente in matrimonio mediante il sacramento nuziale, si separa, di diritto o di fatto, dal proprio legittimo coniuge e contrae un nuovo vincolo stabile, si trova in una condizione oggettiva di peccato e di conseguenza, finché perdura tale condizione, non può ricevere l’assoluzione sacramentale e non può accostarsi alla Comunione eucaristica. La condizione di partenza è quella di un matrimonio validamente celebrato; in questa condizione interviene una separazione di diritto, cioè il divorzio, o di fatto, quando cessano la convivenza e i reciproci obblighi coniugali e familiari; ad essa segue un nuovo rapporto stabile, cioè un matrimonio civile o una convivenza: la sola separazione, infatti, non è di per sé necessariamente impedimento a ricevere i sacramenti. La nuova relazione è uno stato oggettivamente disordinato, cioè difforme dal progetto di Dio sulla sessualità umana e sul matrimonio: chi si trova in tale stato non può ricevere i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, sino a quando non venga rimosso l’impedimento. Ora ci domandiamo: perché questa proibizione? Forse perché la Chiesa non capisce i problemi delle persone che vivono tale situazione? Forse benedetto che essa manca di compassione verso i suoi figli più provati? Quante volte abbiamo sentito queste obiezioni… Ma non è così! I motivi sono invece profondi e gravi, e sono di ordine dottrinale e di ordine pastorale. Anzitutto c’è una fondamentale ragione teologica: colui che vive stabilmente in una condizione moralmente disordinata e in essa persevera non può ricevere l’assoluzione sacramentale, poiché questa suppone il pentimento per i peccati. E il pentimento, per essere vero, deve comprendere il proposito di cambiare vita, proposito che non ci può essere in colui che intende perseverare nella propria condizione peccaminosa. Allo stesso modo, egli non può ricevere il sacramento dell’Eucaristia, poiché la Comunione sacramentale presuppone e comporta la comunione della fede, con Dio e con la Chiesa, cioè l’impegno a conformare il pensiero e la vita a ciò che Dio ci ha rivelato e, mediante la Chiesa, ci fa conoscere, e in particolare, in questo caso, il suo progetto sulla sessualità umana e sul matrimonio. Il credente, infatti, si fida più di Dio che di se stesso, sa che il proprio bene e la propria felicità stanno a cuore più a Dio che a lui stesso, e quindi si impegna a credere e vivere ciò che Dio afferma essere vero, giusto, santo, a preferenza di ciò che può apparire conveniente ai propri occhi. Se colui che si trova in una condizione oggettiva di disordine morale ricevesse l’assoluzione e la Comunione compirebbe un atto in contraddizione con ciò che vive, e non solo non ne avrebbe alcun frutto spirituale, ma la profanazione di questi doni soprannaturali non potrebbe che produrre una esplosione di quella contraddizione che già segna il suo rapporto con Dio, con se stesso e con il prossimo. In secondo luogo, vi è poi una ragione pastorale: proprio la crescente nostalgia per il sacramento del perdono e dell’Eucaristia può essere il più forte stimolo ad imprimere una svolta di conversione e di salvezza ad una vita adagiata in una situazione di peccato. Dunque le esigenze che la Chiesa pone davanti ai suoi figli sono forti e possono apparire dure, ma in realtà sono un atto di verità e di misericordia: di verità, perché esprimono e realizzano la verità del rapporto dell’uomo con Dio, con se stesso e con il prossimo; di misericordia, perché spingendo l’uomo con pazienza e fermezza ad accogliere e vivere il progetto di Dio, con ciò stesso lo incamminano verso il vero bene e la piena felicità, che di quel progetto è lo scopo ultimo: il progetto di Dio, infatti, rispecchia le esigenze intrinseche del vero bene dell’uomo, e solo vivendo tali esigenze l’uomo viene liberato dai surrogati che danno ebbrezza immediata e poi aprono un baratro di inquietudine e disperazione.

Alcune obiezioni da sfatare

A conclusione, non ci resta che affrontare brevemente alcune ricorrenti obiezioni. Perché i divorziati risposati non possono accedere ai sacramenti, mentre lo possono fare coloro che commettono peccati che per la dottrina stessa della Chiesa sono per lo meno altrettanto gravi? Occorre precisare, a partire da ciò che già dicevamo, la differenza essenziale tra un atto peccaminoso e una situazione permanente peccaminosa: l’atto peccaminoso, di cui si sia debitamente pentiti, può essere confessato e assolto, e conseguentemente non essere più di ostacolo per accedere alla Comunione; la situazione peccaminosa invece, come si diceva, è uno stato di vita da cui convertirsi come condizione previa all’accesso ai sacramenti, altrimenti inefficaci. L’impossibilità di ricevere i sacramenti non è forse una punizione ingiusta per quel coniuge che viene senza sua colpa abbandonato, magari ancora giovane, e che quindi desidera “rifarsi una vita”? I sacramenti non sono il premio per i perfetti, altrimenti nessuno li meriterebbe; e di conseguenza la privazione di essi non è in alcun senso una punizione. Semplicemente esistono condizioni oggettive e soggettive, da cui non si deve prescindere, per una loro adeguata e fruttuosa ricezione. La Chiesa afferma di avere particolare sollecitudine per i lontani, ma con questa norma, in una società come la nostra in cui tante sono le famiglie irregolari, non fornisce forse loro il maggior incentivo a restare lontane dalla fede? Ciò che è in questione non è una norma – non stiamo parlando di un divieto di sosta! – ma un’esigenza intrinseca della vita dell’uomo e del suo rapporto con Dio: tutelare la santità di questo rapporto è il migliore servizio al bene e alla felicità dell’uomo, della famiglia e della società. E questa tutela si esplica in una proposta franca ed integrale del Vangelo e delle sue esigenze; al contrario snaturare il Vangelo per “adattarlo” alla mentalità dominante significa privare l’uomo di una proposta che lo guida alla vera libertà e all’unica possibile felicità, per questa vita e per l’eternità.

Tratto da Il Timone, n. 93

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