Alcuni equivoci sulla musica per la Liturgia

di Aurelio Porfiri*      ( tratto da Zenit.org)

Quando si parla di alcuni argomenti, non sempre ci si ferma ad esaminare se le parole e i concetti dalle parole espressi rappresentano veramente ciò che si pensa a priori di condividere. Talvolta usiamo concetti di cui pensiamo avere una idea comune, ma poi ci accorgiamo che in effetti diverse persone intendono diversi significati. Talvolta, come nel nostro caso, il concetto viene piegato volontariamente o involontariamente a diversi significati per servire diverse esigenze, lecite o no. Anche, come vedremo, forzando la stessa logica per arrivare laddove si vuole arrivare.

Negli ultimi decenni, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, la musica liturgica ha conosciuto una vita tormentata. Alcuni danno la colpa di questo allo stesso Concilio, altri ritengono che lo stesso sia stato male interpretato. In effetti alcune delle parole che circondano la musica liturgica oggi, se venissero attentamente ponderate, darebbero adito a più di una obiezione. Esse sono usate in modo equivoco. Il termine “equivoco” viene dal latino aequus e vox e significa qualcosa che può essere inteso in modo simile e quindi dare luogo ad errore. In effetti, proprio su una certa ambiguità semantica e concettuale si sono giocati e si giocano tante battaglie sulla musica liturgica. Quindi vorrei cercare di fare un po’ di chiarezza su questi concetti in modo che l’argomento possa essere affrontato più serenamente e senza eccessivi patemi d’animo. I concetti che si prestano ad equivoci, a mio avviso, sono i seguenti:

— La musica liturgica deve essere semplice;

— Il Concilio Vaticano secondo ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino;

— Il popolo deve cantare e quindi il coro è di intralcio;

— Bisogna valorizzare la musica e la cultura dei giovani;

— Rappresentazione della vita come gioia;

— In Chiesa si suona musica che la gente riconosce come propria;

— Chi presta un servizio musicale-liturgico lo fa con il cuore e buona volontà, non si deve chiedere più di questo;

— I professionisti non sono più ben accetti perché vogliono addirittura essere pagati mentre queste cose vanno fatte con spirito di gratuità.

Come si vede e come ciascuno può riconoscere, ci sono molti concetti che hanno fornito base per battaglie di vario genere, ancora in fase di evoluzione. E certamente i problemi non sono limitati all’elenco di cui sopra. A mio avviso, tuttavia, questo elenco rappresenta un campione molto rappresentativo. Vediamoli uno per uno.

La musica liturgica deve essere semplice

Questo è uno dei temi piu’ dibattuti. Molti dicono che la musica del passato, quella della grande tradizione musicale della Chiesa Cattolica non sarebbe più fruibile perché, per permettere al popolo di partecipare, si deve far posto ad una musica liturgica più semplice. Ma qui anche ci si scontra con una accezione fuorviante del termine “semplice”. Ora, prima di tutto bisognerebbe capire da dove deriva il termine “semplice” per evitare di usarlo impropriamente e quindi cadere negli equivoci di cui sopra. “Semplice” viene dal latino sine e plica, con il significato di “senza piega”. Quindi non ha il senso di disadorno, elementare, accessibile, ma quello di qualcosa che ha un’apparenza di perfetta unità. In effetti, la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere, la cosa che richiede più sforzo. La musica dei grandissimi compositori sembra semplice non perchè è facile, ma perchè è così vicina ad una certa perfezione che sembra nulla si possa cambiare nel suo svolgimento, è “senza piega”. Purtroppo si equivoca il termine “semplice” con “banale”, si pensa che semplice voglia dire fare le cose con faciloneria. Ma in effetti per ottenere la semplicità è necessaria un’applicazione ancora più ferrea. Quindi, quando si intende che la musica liturgica in alcune sue espressioni deve essere semplice per essere accessibile al canto di tutti, non si dovrebbe mai implicare un abbassamento qualitativo ma semplicemente adombrare una modalità diversa di composizione. In effetti la parola semplicità venne anche associata ai riti stessi nello stesso Concilio:

“I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli ne abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).

Ora, si fa riferimento alla semplicità ma si rinforza il termine con la parola “nobile”, proprio per far intendere che non si intende abbassare il livello qualitativo ma solo cercare di ripulire la liturgia da alcune sovrastrutture accumulatisi nel tempo. Non si può negare che talvolta, nei testi conciliari, frutto talvolta di compromessi tra fazioni di pensiero opposto, si presenta un carattere che Romano Amerio nell’ormai classico “Iota Unum” (1989) definiva “anfibologico”. Questo termine sta a significare che certe affermazioni possono essere lette in due modi opposti. Quella sopra per esempio, la citazione da SC 34 può fuorviare, specialmente quando si legge che i riti “siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli”. Ma se si legge il documento nella sua totalità si può vedere che non c’è in questa affermazione nessuna volontà diminutiva ma solo il desiderio di eliminare alcune sovrastrutture che nel tempo si erano introdotte nella liturgia. Alcuni hanno interpretato questo passaggio come la riduzione della Messa ad uso di una idea di popolo che non può che essere vaga, essendo quello di “popolo” un concetto indefinito e che non può essere quantificato o qualificato facilmente.

Il Concilio Vaticano secondo ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino

Questo è un tipico errore di logica che viene chiamato “ricorso all’autorità”. Praticamente si cita una fonte autorevole per avallare una tesi che in effetti la fonte autorevole non ha mai affermato. Ricordo sempre una situazione in cui mi sono trovato parecchi anni fa. C’era un persona che discuteva con un Diacono sulla opportunità di usare un canto in latino durante la celebrazione. Ad un certo punto il Diacono gli rinfacciava che non si poteva usare il latino perchè il Concilio lo aveva abolito. Io fui sorpreso nel sapere che a mia insaputa era stato convocato un altro Concilio dopo il Concilio Vaticano secondo, perchè per quello che ricordavo di quest’ultimo si affermava:

“L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium 36, 1).

Nei successivi punti dell’articolo 36 si concedevano maggiori possibilità alle lingue nazionali ma i punti seguenti erano appunto preceduti dal primo articolo che recitava come sopra e che mi sembrava ben lungi dall’abolire la lingua latina. Insomma, non dobbiamo fare i fanatici del latino ma neanche dobbiamo far affermare al Concilio quello che lo stesso non ha mai detto. Quindi la furia contro la musica liturgica in latino non ha veramente ragione di essere e si basa sul fondamentale equivoco sulla concessione di uno spazio più ampio alle lingue nazionali che non voleva dire necessariamente che le stesse avrebbero dovuto de jure sostituire il latino, anche se poi questo è successo de facto. Ma le recenti esortazioni di Papa Benedetto XVI dimostrano come non c’è nessun divieto dell’uso della lingua latina nella liturgia e quindi anche nella musica. Nella esortazione post-sinodale Sacramenctum Caritatis, Papa Benedetto XVI afferma a proposito di grandi celebrazioni:

“Per meglio esprimere l’unità e l’universalità della Chiesa, vorrei raccomandare quanto suggerito dal Sinodo dei Vescovi, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano Secondo: (182) eccettuate le letture, l’omelia e la preghiera dei fedeli, è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note (183) della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano. Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare certe parti in canto gregoriano della liturgia (184)” (Sacramenctum Caritatis 62).

Come si vede, anche in documenti recenti si afferma ben diversamente. Ma anche nei documenti precedenti, come le istruzioni applicative dopo il Concilio, pur concedendo larghissimo spazio alle lingue nazionali, mai si era proibito il latino, nel canto e nella liturgia. Si riteneva che le lingue nazionali avrebbero favorito la partecipazione dei fedeli ma non c’è mai stata una volontà sostitutiva, meramente una volontà suppletiva. La critica più frequente è che la gente non sa il latino. Questo può essere vero ma vorrei ricordare come proprio i giovani che tanto esaltiamo ascoltano quasi esclusivamente musica in lingue straniere. Quindi il problema non è quello di celebrare in una lingua che il popolo non saprebbe, ci si dovrebbe chiedere della opportunità di usare questa lingua nella liturgia. E in effetti qui il discorso porterebbe lontano.

Il popolo deve cantare e quindi il coro è di intralcio

Questo è stato un altro punto completamente frainteso. In questo caso abbiamo l’errore logico che viene definito “falso dilemma”: se A è vero quindi B deve essere falso. Se il popolo deve cantare allora il coro non può cantare perchè intralcia il canto del popolo. Ma questa è una affermazione che non solo non sta nei fatti ma è anche contraria allo spirito di tutte le direttive ecclesiastiche dal Concilio ad oggi. Quello che si voleva evitare è che il canto durante la celebrazione fosse ad esclusivo appannaggio del coro, ma mai si è voluto penalizzare od umiliare il coro nelle celebrazioni liturgiche. Ma purtroppo è quello che succede nelle parrocchie dove sacerdoti poco informati mettono alla porta il coro per una falsa idea di partecipazione, più ispirata ad un vecchio comunitarismo in cui non crede più nessuno che all’autentica dottrina della Chiesa. Quello che si dovrebbe chiedere a questi sacerdoti è di mostrare un solo documento dove viene detto che il coro deve essere escluso dalle celebrazioni. Anzi, se andiamo proprio al documento che viene spesso impugnato da questi interpreti originali del magistero della Chiesa, la Sacrosanctum Concilium, vediamo che la realtà è ben diversa:

“Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le “scholae cantorum” in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30” (114).

E cosa dicevano gli articoli 28 e 30? Il 28 avvertiva che nelle celebrazioni liturgiche ogni fedele deve limitarsi a svolgere quanto gli è proprio, non tutti devono fare tutto; il 30 dava alcuni suggerimenti per curare la partecipazione attiva dei fedeli, mai dicendo che questa era escludente il coro e il repertorio proprio del coro. Certo si può discutere sulle modalità della sua partecipazione, ma questa è un’altra questione. In effetti qui c’è il nodo dell’interpretazione del termine partecipazione e la sua distinzione con il partecipazionismo, dove tutti fanno tutto.

Bisogna valorizzare la musica e la cultura dei giovani.

Eccoci di fronte ad uno degli argomenti topici di tanta cultura post-conciliare. Questo errore logico può essere chiamato “ricorso alla novità”, quindi qualcosa è buona solo in quanto nuovo. La gioventù viene quindi celebrata in se stessa, non come proiezione verso la maturità ma come momento a sé stante. Certo ci sono le bellezze della gioventù ma essa è bella in quanto proiezione alla piena maturità e dovrebbe essere vista come proiezione alla piena maturità. Quindi, imporre attraverso il culto della gioventù un dato stile musicale a tutta la Chiesa (che è fatta anche da anziani, uomini e donne mature e bambini) non è logico.

Il culto del giovanilismo era in auge durante il fascismo, tramite il futurismo, e della gioventù veniva esaltata la vigoria atletica. Nel nostro caso, non si è neanche così fortunati perché della gioventù si esalta praticamente il concetto in se stesso, ma così facendo depauperandolo del suo vero significato che è la proiezione verso la maturità. Parlare poi di cultura musicale dei giovani è estremamente delicato, in quanto sappiamo che essi sono preda di una industria culturale che ne condiziona i gusti tramite potentissimi mezzi. Quei giovani dall’ascolto più passivo sono totalmente in balia di questi condizionamenti, mentre coloro che riescono a mantenere un po’ di indipendenza sanno anche discernere. Ma lo stile musicale che di solito passa nelle nostre chiese è quello dei passivi, meno raffinati. Quindi, in pratica non stiamo difendendo la cultura dei giovani (cosa è poi?) ma la cultura imposta dalle major discografiche. Certamente è un discorso complesso ma più o meno quello che succede è questo.

La rappresentazione della vita come gioia.

Conseguenza di questo atteggiamento è anche il presentare la vita indistintamente come gioia. Quindi tutta la musica per la liturgia deve avere un carattere saltellante in modo da servire questa esigenza. Esigenza che però come tutti sperimentiamo giorno dopo giorno, è profondamente sbagliata. In un certo senso può essere definito come ricorso alla paura: perché tutti sappiamo che la vita non è solo gioia, allora creiamo una sorta di paradiso artificiale. Dalla celebrazione e dai canti della stessa si eliminano tutti quei canti o termini che richiamano alla realtà di sofferenza per sostituirli con termini e canti semplicemente inneggianti ad una gioia che in questo caso non è spirituale, ma spiritata, quasi proveniente da una esaltazione che non procede da processo spirituale ma da una specie di esaltazione malsana.

Ma c’è anche un altro errore: la musica per la liturgia non è rappresentazione della vita, essa è per la gloria di Dio e l’edificazione e santificazione dei fedeli. Sono tutti concetti ascendenti, non sono concetti che si limitano al terreno. Ma questo lo vedremo poco più oltre. Tutti i pericoli di cui sopra erano stati identificati da Romano Amerio:

“Oggi la vita è presentata ai giovani irrealisticamente come gioia, prendendo la gioia in isperanza, che serena l’animo in via, per la gioia piena che lo appaga soltanto in termino. La durezza dell’umano vivere, dipinto un tempo nelle orazioni più frequentate come valle di lacrime, viene negata o dissimulata. E poiché con quello scambio la felicità viene figurata come lo stato proprio dell’uomo e dunque dovuto all’uomo, l’ideale è di preparare ai giovani una strada ‘secura d’ogn’intoppo e d’ogni sbarro’ (Purg., XXXIII, 42). Perciò ai giovani pare ingiustizia ogni ostacolo da saltare e lo sbarro è riguardato non come prova, ma come scandalo” (Amerio 1989, 173).

Questa mentalità si è riversata senza tregua nella musica liturgica. Questo rifuggire dalla sofferenza della vita promuovendo un repertorio musicale solo improntato al ritmi balzellanti è tipico di questo atteggiamento in cui si nega la sofferenza della vita. Certo tutti vogliamo la felicità, ma essa è una speranza non una falsa realtà.

In Chiesa si suona musica che la gente riconosce come propria.

Anche qui c’è un fondamentale fraintendimento della liturgia. La liturgia non è principalmente la vita, essa è soglia verso l’oltre. Essa è liminale, che significa che essa è una porta verso l’eterno. La musica dovrebbe essere un simbolo sonoro che serve ad aiutare i fedeli ad avvicinarsi a questo oltre, non ad aggrapparsi a se stessi. Se ci aggrappiamo a noi stessi non ci possiamo elevare, ci serve un appiglio esterno. Ecco l’errore di chi pensa che la musica che si sente fuori deve essere poi trasportata nella liturgia magari cambiando semplicemente il testo.

C’e anche il problema che le neuroscienze ci fanno capire sempre meglio: per riconoscere la musica noi usiamo un processo che è chiamato “categorizzazione”, quindi ad un ascolto musicale associamo certe sensazioni contenute nel nostro archivio mentale. Ora, quando la musica nella liturgia richiama troppo fortemente modelli improntati alla musica profana, il rischio è che i valori che passano siano quelli di quest’ultima, non quelli della liturgia. La musica in stile pop può essere usata per manifestazioni ad impronta religiosa, è sempre buono che si cerchi di parlare di valori spirituali usando tutti i linguaggi, ma la messa non è un momento prettamente catechetico, è il momento del disvelamento della Presenza. A questo ci prepara.

Chi presta un servizio musicale-liturgico lo fa con il cuore e buona volontà, non si deve chiedere più di questo.

Quindi, se si accettasse questo, sarebbe veramente fuori luogo il professionalismo musicale nella liturgia. Ma va accettato? In effetti, no. In questo caso abbiamo un errore logico che viene definito “falsa pista”: l’argomento di partenza svia il corretto svolgersi della questione perché è mal posto. E’ vero che chi presta un servizio deve farlo con il cuore? Certamente, la disposizione personale è importante ma lo è anche la capacità tecnica nello svolgere un dato compito. Se io vado da un dentista e devo scegliere fra il suo buon cuore e la sua bravura professionale, io sceglierei la seconda. Se andiamo da un medico per avere anche un piccolo interventino e il medico in questione ci fa sapere che lui non è veramente preparato per quel lavoro ma ci metterà tutto il cuore, saremmo tranquilli o no? Questo esaltare la buona volontà di tanti gruppi che si mettono ad animare la liturgia senza le necessarie capacità configura anche un altro errore logico, quello che viene definito “ricorso alla pietà”. Non perché una cosa ci può commuovere per questo deve diventare vera.

I professionisti non sono più ben accetti perché vogliono addirittura essere pagati, mentre queste cose vanno fatte con spirito di gratuità.

Chi presta un servizio musicale-liturgico deve avere i necessari requisiti tecnici, per avere questi è necessario studiare, per studiare bisogna pagare. Ora è un dovere che il popolo cristiano supporti coloro che offrono un servizio professionalmente qualificato, così come si pagano i fiori o coloro che forniscono il sistema audio e via dicendo. Il sacrestano viene pagato, perché non l’organista o il cantore? Anche qui, purtroppo, c’è un altro equivoco che poi ha serie conseguenze, in quanto questa deprofessionalizzazione ha disastrato la musica liturgica, portandola al livello attuale di grande decadenza. Non dimentichiamo che nella tradizione della Chiesa e nella dottrina sociale c’è il rispetto per il lavoro umano. Se io vado in chiesa esclusivamente per pregare certo non devo essere pagato, ma se offro una competenza essa deve essere riconosciuta e ricompensata. Perché se il principio fosse accettato che non bisogna pagare nulla nella liturgia quindi non dovrebbero essere pagati i fiori, la luce, l’elettricità, l’offerta per le messe e per il sacerdote e via dicendo. Se è valido quel principio, e non lo è, deve essere valido per tutto.

Insomma, se si usasse la logica ci si ritroverebbe a fare i conti con tanti errori che sviano coloro che si danno da fare con buona volontà ma che talvolta per non mettere in discussione alcune direttive non riescono a discernere il vero dal falso.

————

*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.