Il Signore sempre ci viene incontro attraverso lo sguardo di uomini in cui Egli traspare.

Cinematograficamente Pietro Sarubbi ha un volto dall’impatto forte, ragionando per stereotipi lo si inquadra bene nel ruolo del «cattivo». E invece, fin da subito, nel parlare con lui si resta colpiti dalla sua dolcezza e profondità; e anche dall’ironia. I nostri copioni mentali vanno in fumo alla svelta. Anche nella sua storia personale è stato così, un film che doveva essere solo «finzione» gli ha mandato all’aria tutta la realtà che credeva di conoscere bene.

A riperercorre la sua carriera sul piccolo e grande schermo c’è da sgranare gli occhi. Ci sono trasmissioni di grande successo come Portobello, Zelig, Casa Vianello e lavori con registi eccellenti, Dino Risi, Franco Zeffirelli, Gabriele Salvatores .. solo per citarne alcuni.

Poi arrivano due occasioni nel cinema americano: la prima è la partecipazione al film Il mandolino del capitano Corelli (al fianco di Nicholas Cage e Christian Bale), la seconda è la chiamata di Mel Gibson che lo vuole nel ruolo di Barabba nel film capolavoro The Passion of Christ. E sembra che tutta la carriera precedente sia una grande rincorsa per arrivare a questo momento in cui l’attore, facendo l’attore, incontra il volto di un Dio vivo, incarnato che gli scombina sul serio tutta la vita. Ce lo raccontera la sua viva voce cos’è la tempesta benedetta di una conversione. Oggi Pietro Sarubbi continua a essere un attore e un docente di cinema, e possiamo ironicamente dire che il suo curriculum è nettamente «migliorato»: da Barabba, oggi i suoi cavalli di battaglia sono San Pietro e San Giuseppe. Ma dietro c’è il medesimo uomo, quello che col suo volto deciso – e cuore commosso – ha scelto di donarci una parola piena di dolcezza: la docilità.

Pietro Sarubbi

Oggi sono un uomo di 58 anni, a dire il vero sarebbero 59 ma questo 2020 non lo considero perché non l’ho proprio usato. Sono un attore e anche un uomo che cerca di essere all’altezza dell’esperienza cristiana che vive ed è una grande fatica in questo mondo sempre più difficile da comprendere, sempre più disamorato della bellezza. Da circa 20 anni insegno Mestiere del cinema alla Civica Scuola di cinema di Milano che partì come un semplice centro di formazione professionale e nei 50 anni della sua vita è arrivata a divenire, grazie a un programma di eccellenza iniziato dalla Moratti, un’università. C’è una laurea triennale in Mestiere del Cinema e quindi impropriamente mi trovo a essere un docente universitario con dei ragazzi molto vivi, curiosi, intelligenti e molto bravi tecnicamente. Anche se è un ambito molto laico, per me è una piccola frontiera di cristianesimo perché mi permette di mettermi alla prova e di essere a servizio per dare quel di più di bellezza e totale efficacia che, secondo me, il docente cristiano possiede. È quello sguardo che ti permette di vedere gli occhi di Cristo nello studente che non studia, che ha dei problemi, che è irrisolto e questo cambia completamente la relazione. Non passa inosservato questo sguardo, anche per i ragazzi che sono lontani dalla fede: li spiazza il contraccolpo nel vedere una bellezza lì dove gli era stato detto che non ci doveva essere.

A rischio di annoiare chi già mi conosce, sono stato spiazzato io stesso da quello sguardo, a cui stavo accennando, e mi riferisco alla partecipazione sconvolgente al film di Mel Gibson The Passion of Christ; interprentando Barabba è accaduto che lo Spirito Santo si sia servito di un uomo per guardare un altro uomo. Ora mi è chiaro, allora fu sconvolgente e spiazzante.

In un tempo successivo lessi l’enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas Est in cui c’è una frase che esprime in modo chiarissimo ciò che era accaduto anche a me:

Il Signore sempre, di nuovo, ci viene incontro attraverso lo sguardo di uomini in cui Egli traspare.

È proprio il metodo di Dio quello di guardare gli uomini attraverso gli occhi di altri uomini e questo spiegava ciò che per me era inspiegabile: non potevo immaginare che un semplice attore che interpretava Gesù potesse guardarmi in un modo che mi sconvolgeva l’anima. Da quel momento c’è stato un cambiamento di vita personale, umano, professionale perché quando sei preso, sei preso in tutto. Mi colpì molto un passaggio scritto da Monsignor Lepori a proposito di San Pietro:

Incontrò Simone, lo chiamò Pietro, lo chiamò con un nome nuovo, facendolo nuovo e lasciandolo com’era.

La conversione è esattamente questo: sei chiamato a un nome nuovo e a vita nuova rimanendo quello che sei. E da quel momento comincia una sfida tutta umana perché non c’è la bacchetta magica che ti trasforma, rimani proprio chi eri ma vivi un innamoramento per Cristo e la tua vita diventa un tentativo di essere all’altezza di questo innamoramento. Rimani con il tuo peccato e la tua pochezza ma sei arricchito dalla speranza che attraverso la preghiera puoi camminare senza timore in una nuova direzione.

Questa conversione mi ha portato ad allontanarmi dal teatro, nauseato dalla superficialità e dalla pochezza che c’era, finché una carissima amica di Ravenna mi disse che dovevo proprio ritornare al teatro e lì, dentro l’arte, dovevo essere al lavoro con la dote nuova che portavo in me. Quindi circa 12 anni fa è iniziata questa avventura di un teatro che fosse bello, piacevole, divertente, comico ma anche profondo, e ho cominciato con uno spettacolo su San Pietro. Successivamente ho avuto la fortuna che la commissione per il Giubileo della Misericordia abbia avuto notizia del mio lavoro e mi chiese di fare uno spettacolo per l’anno giubilare proprio sul tema della Misericordia.

Un po’ studiando, un po’ indagando mi resi conto che San Giuseppe è stato uno degli uomini più misericordiosi, dei più pazienti, dei più accoglienti e ho dedicato a lui quello spettacolo. Ora, se si può dire così, San Pietro e San Giuseppe sono i miei cavalli di battaglia. Ho in cantiere tre nuove sfide: Sant’Agostino, Guareschi e San Filippo Neri. La mia strada è quella del sorriso e alcuni mi hanno accusato negli anni passati di essere poco rispettoso perché parlo di Gesù anche attraverso la cifra della risata. A queste obiezioni io rispondo dicendo che se pensiamo, davvero, a 12 persone normali come noi che incontrano Gesù non sarebbe strano immaginarle che ridono, si agitano e saltano. Don Giussani diceva:

Con quello che avete conosciuto, con quello che avete incontrato non vi potete permettere di essere tristi.

Chi ha una fede alta capisce l’immenso valore della leggerezza, chi ha una fede penitenziale, del dolore e del non perdono vede il sorriso come qualcosa di irriguardoso. Ma noi siamo figli di un Dio che è lento all’ira e generoso nel perdono, perciò la nostra preghiera è proprio il Padre Nostro. Dentro quella pregheria c’è tutto di noi e di me, perché c’è un Padre che con un affetto enorme mi ha riempito di calci e cazzotti. Chi ti vuole bene si preoccupata per te, e quindi arriva a darti una sberla.

Coi miei ragazzi a scuola cerco di portare questo sguardo di Dio, e dico loro che non devo essere simpatico come insegnante, ma utile. Non devo essere un compagnone o amicone, ma un guardiano e anche un rompiscatole. Loro fanno un po’ fatica a capire questo, ma quando poi li incontro sul set, finita la scuola, mi ripetono sempre: “Prof, adesso ho capito!”. Mi commuovo quando succede, allora per smorzare rispondo con le parole di Sant’Agostino: “Tardi t’amai…”. Intendo dire che Dio, come Padre, non ci risparmia niente e chi come me si è convertito non vive in una bolla magica in cui tutto è a posto. La fatica resta fatica, anche il dolore. Non ci è risparmiato nulla, ma Dio non ha risparmiato nulla a Suo Figlio, perché noi dovremmo ostinarci a chiedere a Dio, quasi fosse un suo dovere, di toglierci qualcosa?

Per me che sono logorroico è impegnativo condensare tutta questa esperienza che ho raccontato in una sola parola, ci ho rifletutto e penso che quella giusta sia docilità. Mi capitò di partecipare a degli esercizi spirituali, ed ero anche un po’ annoiato e scocciato da tutta la gente che stava in silenzio e ubbidiva (io sono sempre stato un ribelle!), e fu proprio lì che cominciai il mio cammino di docilità quando fui colpito da come ci fu presentata la docilità di Maria. Pensandoci, anche tutto il mio percorso teatrale ha questo tema nel sottofondo: San Pietro era un tipo rude, io vengo dal Sud Italia e ho conosciuto tanti pescatori come lui. Era irascibile, pronto a far andare le mani e da quando incontra Gesù viene continuamente provocato a essere docile.

Pietro fece una gran fatica a essere come Gesù lo chiamo a essere; San Giovanni Paolo II disse che Dio fa scegliere a Gesù Pietro come primo Apostolo, prendendo il peggiore di Cafarnao, per dare un segnale forte a tutti, e cioé che la santità era per tutti. Se ce l’ha fatta San Pietro ce la possiamo fare anche noi. San Pietro arriva a consegnarsi a Gesù con tutta l’arrendevolezza di quei tre «Sì» con cui risponde al «Mi ami tu?». E un altro «Sì» enormemente docile è quello di San Giuseppe. Tutti conoscono il «Sì» di Maria, ma pochi conoscono quello di Giuseppe che è il «Sì» del quotidiano, quello che lui pronunciò per tutti gli anni che visse senza clamori con Maria e Gesù. Il suo è il «Sì» di tutti quelli che ogni mattina si alzano e si aprono alla vita, alla preghiera, alla vocazione, al lavoro.