Suor Rosemary: «Ho visto l’inferno negli occhi delle ragazze di Gulu»

Cosa avrà mai fatto una piccola suora cattolica per finire nell’elenco stilato da Time delle cento donne più influenti del mondo, dove abitualmente entrano personaggi come Angela Merkel o Ivanka Trump? La risposta può sembrare dantesca ma è la pura verità: è scesa all’inferno, ha vinto le sue paure e ha riportato alla luce quante più creature (giovani donne) poteva. Qualcuno l’ha ribattezzata «la Madre Teresa di Gulu» (città del Nord dell’Uganda).

Quando giungerete alla fine di quest’intervista, forse anche voi avrete un candidato al Nobel per la Pace: suor Rosemary Nyirumbe.

Nel Nord Uganda la terra è rossa, ma negli ultimi trent’anni quel colore è stato accentuato da un fiume di sangue: cos’è accaduto? 

«Un fanatico, Joseph Kony, si mise alla testa di un gruppo di ribelli e chiamò i suoi disperati Esercito di Resistenza del Signore (LRA), dichiarando di voler ripristinare i Dieci Comandamenti con un sadismo che si fatica anche solo a pensare. Io ero cresciuta in una famiglia dove non mi era mai mancato l’amore. Per questo decisi di farmi suora: per restituire un po’ di quell’amore. Ho imparato a fare l’ostetrica, mi sono laureata e quando nel Nord dell’Uganda scoppiò l’ennesima guerra civile, le mie superiore mi mandarono a dirigere la scuola di Santa Monica a Gulu. Insegnavamo alle ragazze a confezionare abiti. Fu allora che scoprii l’inferno in terra attraverso gli occhi di centinaia di ragazze».

Come, grazie a ragazze che volevano diventare sarte?

«Sapevo delle razzie di Kony, sapevo che entravano nei villaggi, uccidevano, depredavano e rapivano i bambini per trasformarli in assassini che avrebbero dovuto “purificare” il mondo. Ma non sapevo cosa succedeva dopo, nella foresta, e ciò che accadeva alle sopravvissute che riuscivano a tornare a casa. Alcune delle mie allieve non alzavano mai neppure gli occhi. Riconquistai la loro fiducia e fui inondata da racconti che mi tolsero il sonno. Storie di bambine rapite di notte o mentre tornavano da scuola, stuprate davanti ai genitori che poi venivano uccisi, utilizzate come schiave del sesso per i soldati e obbligate a tornare nei villaggi a uccidere i loro parenti. Alla minima protesta venivano mutilate, seviziate, torturate. A volte anche solo per gioco, come in una tombola, a chi capitava si tagliavano un orecchio, le labbra, un arto. A ogni assalto di villaggio venivano dati gli obiettivi: devi ucciderne almeno cinque, altrimenti uccidiamo te».

E a quelle che riuscivano a fuggire cosa accadeva?

«Tornate a casa erano considerate immonde, scarti, loro e i loro figli, contaminate dalla malvagità dei banditi. Allora decisi che quegli scarti me li sarei presi io. Decisi che il passato non esisteva più, doveva esserci solo un futuro. Lanciai un messaggio per radio: qui, nella nostra scuola, le ragazze tornate dalla foresta e i loro bambini saranno protette e amate. Cominciarono a giungere a decine, centinaia. Mi devastò la storia di una ragazza rapita insieme alla sorellina: al primo fiume da guadare la costrinsero ad ucciderla con un coltellaccio perché rallentava la marcia. Quando riuscii a convincerla che Dio l’avrebbe perdonata è diventata la migliore sarta della scuola».

Come sfamava queste ragazze?

«La scuola divenne un’officina; organizzammo un servizio di catering, ospitammo convegni, riunioni, matrimoni e tutto quel che capitava per racimolare denaro. Quando si riseppe di ciò che stava accadendo in questo sperduto posto ugandese, cominciarono ad arrivare aiuti, soprattutto dall’America; si sono occupati di noi anche l’ex presidente Clinton e sua figlia Chelsea. Grazie a loro siamo riusciti a vendere negli Stati Uniti, come oggetti di lusso, le borsette realizzate con le linguette delle lattine. Non le sembra una bellissima metafora? Gli scarti sono diventati pietre preziose, come le nostre ragazze, quasi tutte tornate a vivere una vita degna di essere vissuta».

Quanta fede bisogna avere per vivere una vita come la sua? 

«La fede aiuta, certo. Ma io non sono brava a parlare di Dio, mi riesce meglio farle le cose, credere nell’impossibile. Così dovete fare voi se volete aiutare l’Africa: insegnateci a lavorare e fate smettere le guerre; noi abbiamo bisogno di pace, giustizia e lavoro, non di carità».

Pier Luigi Vercesi tratto da donboscoland.it