La dittatura della percezione

Caldo, fa caldo. Diciamo pure che fa più caldo del solito di questi tempi, soprattutto se pensiamo alle ultime estati che sono state piuttosto fresche; e i primi temporali riguardano soltanto alcune regioni del Nord.

Ma quanto fa veramente caldo? Ecco, qui si entra in una palude perché ormai nessun organo di informazione offre le temperature reali, misurate secondo criteri scientifici ben consolidati, omogenei e comparabili.

Le temperature che vengono riportate nei tg e nei giornali sono ormai solo quelle “percepite”, decisamente più alte delle temperature effettive e sparate su un pubblico sempre più spaventato. 40, 45, perfino 50 e oltre gradi percepiti nelle città italiane.

Ma percepiti da chi? E chi lo decide? In realtà quella della temperatura percepita è una stima che – a seconda del metodo usato – tiene conto oltre che della temperatura reale anche dell’umidità e del vento. Esistono diverse scale che la misurano, ma lo scopo non è quello di sostituire la temperatura con una misura più precisa ed efficace, ma soltanto di stimare l’eventuale disagio delle persone in diverse situazioni meteorologiche. Peraltro si tratta di una stima molto approssimativa perché la “percezione” non dipende soltanto da fattori esterni oggettivi (temperatura, umidità, ecc.) ma anche dalle singole sensibilità personali.

Va da sé che sparare queste temperature “percepite”, senza citarne il significato né tanto meno la fonte e il metodo usato, è semplicemente scorretto: aiuta sicuramente a vendere i servizi giornalistici, ma soprattutto in questa atmosfera da incubo che sono diventati i cambiamenti climatici, serve a rafforzare la psicosi che ormai c’è nei confronti del clima. Sparare temperature sui 50 gradi conferma l’idea di un riscaldamento globale fuori controllo.

Se certamente è frutto di interessi particolari che riguardano il clima, la vicenda delle temperature estive si colloca però in una più ampia deriva soggettivistica della nostra società, laddove in molti campi la percezione soggettiva prende il sopravvento sulla realtà oggettiva. A tutti i livelli quello che “sento” è diventato più importante di quello che “è”.

Lo abbiamo visto con il caso di Charlie Gard e, più in generale, con il dibattito sull’eutanasia. Ciò che viene “percepito” come vita (o qualità della vita accettabile) ha la precedenza su ciò che “è” vita. E la legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (Dat) proprio su questo si basa. Non avendo la minima idea di cosa si provi in certe circostanze drammatiche, sono chiamato a decidere le Dat sulla base di ciò che oggi “percepisco” come condizione per me invivibile.

Ancora più esplicito questo passaggio è nella proposta di legge per punire l’omofobia: non essendoci alcuna definizione giuridica – né tanto meno medica – dell’omofobia, la fattispecie di reato penale si basa esclusivamente sulla percezione di offesa o violenza subita che ne ha la presunta vittima. Uno stesso atto quindi potrebbe essere indifferente per una persona con tendenze omosessuali ed essere una grave offesa per un’altra. Il trionfo dell’arbitrio, tipico di ogni totalitarismo.

Se vogliamo è ancora più preoccupante il fatto che questo soggettivismo mondano abbia preso stabile dimora anche nella Chiesa cattolica. Ne è un esempio il drammatico e lacerante dibattito sulla comunione ai divorziati risposati seguito al doppio Sinodo sulla famiglia e alla Amoris Laetitia. L’oggettività è un fondamento della morale cattolica: il male è male, il bene è bene. Solo questa chiarezza dà un senso alla misericordia. Avviene invece che ormai l’opinione dominante consideri, ad esempio, l’adulterio sì un peccato ma qualche volta potrebbe anche non esserlo. Dipende dalla “percezione” che ognuno ha del peccato e della propria condizione personale. È una deriva pericolosa perché in questo modo la fede si riduce sempre più a sentimento e incontrare Cristo, che è la realtà, diventa sempre più difficile.

tratto da Nuova Bussola Quotidiana