Il vizietto poco laico di citare (a sproposito) la Bibbia per giustificare l’utero in affitto

«Questi eretici non accettano le Scritture; se ne accettano alcune, non le accettano integre, ma le sconvolgono con tagli e con aggiunte per adattarle al loro sistema. Se, poi, le presentano integre fino ad un certo punto, cionondimeno le mutano inventando delle interpretazioni opposte alle nostre».

Così scriveva Tertulliano contro coloro che stravolgono il senso delle Sacre Scritture, piegandole a interpretazioni assurde e utilizzandole per i propri scopi ereticali, cioè anti-cristiani.

L’eresia, come si sa, è una scelta, cioè la scelta di negare l’insegnamento della rivelazione e della tradizione circa qualcosa che appunto deve essere creduto come verità divina e cattolica (come recita il Codice di Diritto Canonico al canone n. 751).

Così, capita oggi, come un tempo capitava a Tertulliano, di imbattersi in opinioni senza dubbio contrarie all’insegnamento dottrinale della tradizione della Chiesa e della rivelazione cristiana.

Di più, capita che soggetti che non condividono nulla della fede cristiana, che magari non credono del tutto, e che comunque combattono una incessante lotta culturale, politica, sociale e giuridica contro la Chiesa e gli insegnamenti cristiani, si risolvano per utilizzare le stesse Sacre Scritture e gli episodi in esse narrati per contestare proprio la Chiesa e la dottrina teologica e morale cristiana.

Così sta accadendo di recente con sempre maggior frequenza a proposito della maternità surrogata che secondo taluni commentatori sarebbe legittimata e ampiamente diffusa nel racconto biblico a testimonianza che si tratta di una pratica in linea con l’insegnamento morale cristiano e che dunque non può essere né biasimata, né oggetto di divieto.

Michela Murgia su L’Espresso, Carlo Flamigni sul Fatto quotidiano, Umberto Veronesi sul Corriere della Sera sembrano fermamente convinti di ciò. Me è proprio così?

In genere vengono citati alcuni episodi, ma è sufficiente considerarne uno, il primo, per comprendere che la problematica è comune a tutti quelli ipotizzabili. Il caso a cui ci si riferisce è quello che coinvolge Abramo e la sterile moglie Sara, narrato dal libro della Genesi 21,8-21.

Sara vuole comunque assicurare una discendenza ad Abramo, così decide di offrire al marito la propria schiava Agar, giovane e fertile. Abramo si congiunge con lei, ma poco dopo Sara pretende soddisfazione dal marito Abramo inducendo quest’ultimo a scacciare Agar e il figlio da questa partorito; appena Agar viene allontanata dalla casa di Abramo il Signore concede a Sara di ottenere una gravidanza propria e assicurare una discendenza legittima al marito Abramo.

I motivi per cui non si tratta di maternità surrogata sono molteplici e tutti molto evidenti.

In primo luogo: non è maternità surrogata in quanto non viene reclamato un presunto diritto al figlio, ma semmai un dovere alla discendenza che Sara come moglie di Abramo deve assicurare al proprio marito, a tal punto da accettare che questi si congiunga con un’altra donna.

In secondo luogo: più che di maternità surrogata si tratta, semmai, dunque, di adulterio, poiché il seme di Abramo, sposato con Sara, si congiunge con l’ovulo di Agar, come in qualunque rapporto extra-coniugale, dando vita a una prole naturale e non legittima.

In terzo luogo: non è maternità surrogata poiché non c’è né un contratto, né soprattutto una libera volontà della madre surrogante, cioè Agar che, in quanto schiava, è tenuta ad obbedire all’ordine ricevuto dalla propria padrona Sara.

In quarto luogo: tanto è sicuramente adulterio che la stessa Sara subito dopo ripensa al mal fatto e chiede ad Abramo di scacciare la schiava Agar con il figlio frutto dell’adulterio.

In quinto luogo: non è maternità surrogata in quanto il rapporto tra Agar e, come si dice oggi, “il prodotto del concepimento”, cioè il figlio nato, non viene mai reciso, anzi, proprio perché questo rapporto sussiste Sara insiste che Agar venga allontanata dalla casa di Abramo.

Secondo il diritto e la morale dell’epoca, infatti, diversamente dalla maternità surrogata odierna, Agar non avrebbe mai potuto essere separata dal figlio che aveva partorito. Come ha notato il noto giurista Daniel Friedmann, infatti, «la serva che diventava madre surrogata poteva essere liberata dalla schiavitù e mandata via, ma avrebbe ovviamente obbligato a mandare via con lei il figlio, come in effetti fece Abramo con Agar. La regola probabilmente proteggeva la madre surrogata. Assicurava che lei non fosse abbandonata. La conseguenza fu che la madre surrogata manteneva un legame emotivo con suo figlio, con potenziale attrito con la padrona di casa, a causa della rivalità per il figlio e il suo status, all’interno della famiglia».

Da tutto ciò si deducono, senza nemmeno eccessivi sforzi ermeneutici, le seguenti considerazioni.

Il racconto biblico di Abramo, Sara e Agar non costituisce l’esaltazione della maternità surrogata, ma, al contrario, la condanna della medesima che si inscrive, nell’ambito del codice morale vetero-testamentario (e quindi anche cristiano), sotto la fattispecie dell’adulterio, specialmente se viene messa in opera con il seme del marito.

L’episodio, inoltre, costituisce una condanna della “maternità surrogata”, poiché si evince tutta la carica di disvalore che l’operazione orchestrata da Sara possiede: in quanto essa è adottata come misura estrema per assicurare la discendenza di Abramo confidando solo nelle capacità umane; in quanto Sara stessa comprende l’illecito morale compiuto richiedendo ad Abramo di scacciare Agar; in quanto Agar viene senza indugio cacciata da Abramo; in quanto dopo essere stata allontanata, di Agar nulla più si sa.

L’intreccio di Sara, Abramo e Agar serve anche come momento di riflessione sulla natura del rapporto coniugale che non può essere equiparato ad altri rapporti o ad altre unioni, come quelle di fatto, o come quelle adulterine, specificando così quanta distorsione subisca la natura umana, quella della coppia unita nel rapporto di coniugio, e quella della famiglia in sé considerata allorquando si inserisce l’elemento della artificialità tecnica che sovverte tutte le relazioni in quanto in grado di deturpare la dimensione dell’essere.

Come ha giustamente osservato il filosofo del diritto Sergio Cotta, infatti, «per sua essenza la tecnica è disintegrazione della struttura delle cose al fine di ridurle, prive di forma propria, a pura energia quantitativa consegnabile alla piena disponibilità dell’uomo; la tecnica allora è espressione radicale dell’oblio dell’essere, presente anche nell’essere e nel destino delle cose […]. L’individuo si ritrova perciò consegnato all’universo della separazione: separato dalla natura, dagli altri, dall’essere».

L’espediente pensato da Sara, cioè il congiungimento del marito Abramo con la schiava Agar, pur non costituendo un caso di maternità surrogata, di quest’ultima condivide la artificialità tecnica che, come tale, quando prevale sull’essere, altera e separa sempre la persona dalla dimensione ontologica.

Infine, l’episodio biblico possiede, ovviamente, un preciso significato teologico e non può dunque essere ridotto alla banale logica odierna fondata sulla presunta esistenza di diritto al figlio o ad altre prometeiche illusioni tipiche del delirio di onnipotenza del tecnomorfismo contemporaneo.

Quando Sara e Abramo, infatti, confidano soltanto nelle proprie forze, senza abbandonarsi alla divina Provvidenza, hanno un rapporto sterile e condannato a non procreare nulla di buono, cioè o nessuna discendenza, o, peggio, una discendenza illegittima nata da adulterio. Soltanto quando Sara ha abbandonato il proprio egoismo, ha respinto il peccato e ha fatto spazio nella propria vita e nella propria anima alla divina Provvidenza, allora il Signore ha donato a lei e ad Abramo una discendenza legittima e benedetta.

Così, infatti, chiarisce, in conclusione, Aristide Fumagalli: «La storia di Abramo e Sara insegna, con schietto realismo, che la tentazione di far da sé è inevitabile e può anche avere la meglio. Nondimeno, essa racconta di una promessa, quella di Dio, che pazientemente si ripropone alla coppia affinché, al venir meno delle attese sperate, non si rinchiuda nell’incredulità, ma si apra alla vera speranza di Colui che non delude».

Non riuscire a cogliere il senso teologico e il senso morale dell’episodio di Abramo, Sara e Agar, del resto, è un tipico portato e una necessaria conseguenza di una cultura ipersecolarizzata, come quella contemporanea (di cui i sostenitori della maternità surrogata sono caratteristici emblemi), non più abituata a scorgere il senso della realtà in quanto schiacciata dalla avverata profezia delineata dal laicissimo ma intellettualmente onesto e lungimirante Max Horkheimer che così ebbe saggiamente a scrivere anticipando i tempi attuali: «La dimensione teologica sarà soppressa. E, con essa, scomparirà dal mondo ciò che noi chiamiamo senso».

Di Aldo Vitale  tratto da Tempi