«Ho ricevuto più di quanto ho dato»

Storia di Nadia, l’infermiera che adottò Mario, il bimbo malato abbandonato dai genitori

Nato con un grave handicap nel 2011, il piccolo è morto il 26 gennaio scorso. «Mi dicevano che poi avrei sofferto. “Lo so, ma preferisco soffrire per sempre per averlo amato, piuttosto che non averlo mai accudito»

«Preferisco soffrire per sempre per averlo amato, anche per poco, piuttosto che non averlo accudito». Sono le parole di Nadia Ferrari, 46 anni, infermiera del reparto di patologia neonatale dell’ospedale di Grosseto, che adottò Mario, nato il 16 giugno del 2011 con un grave handicap e morto il 26 gennaio scorso. Il piccolo, abbandonato alla nascita dai genitori, fu trasferito dal Mayer di Firenze, dove era già stato operato diverse volte, all’ospedale di Grosseto. Nadia ha accettato di parlare della sua esperienza con tempi.it.

UN DONO UNICO. 

Mario arrivò in condizioni terribili, ma per l’infermiera fu da subito un grande dono. «Ricordo che, quando lo vidi la prima volta, era piccolissimo, coperto da tubicini e drenaggi. Aveva assunto posizioni obbligate dall’ospedalizzazione. Fu un colpo di fulmine, mi catalizzava. Erano già arrivati prima di lui altri bambini malati e abbandonati, ma con lui fu diverso. Mario è unico». Il bimbo passò il primo anno della sua vita fra le cure del personale dell’ospedale e di un gruppo di volontari, facendo avanti e indietro dall’ospedale di Firenze, dove fu rioperato. 

«Piano, piano, con la fisioterapia, riuscimmo a sbloccarlo e a fargli assumere posture più naturali. Arrivammo anche a dargli da magiare con il biberon, mentre prima si nutriva con la peg. Cominciai a lavorare su di lui da subito. Quando non ero di turno mi fermavo in ospedale e, quando andavo a casa, pensavo a lui, quindi tornavo per dargli da mangiare, fare la ginnastica o giocare».

I PROGRESSI IMMEDIATI. 

Nadia avrebbe voluto adottarlo «ma non credevo si potesse. Fortunatamente un giorno confessai ad alta voce: “Magari lo potessi portare a casa con me!”. Al mio fianco c’era un assistente sociale: “Allora perché non lo fai?”, mi rispose. Non potevo crederci e cominciai subito le pratiche per la richiesta di affido».

Era l’agosto del 2012, a marzo dell’anno successivo Mario fu affidato all’infermiera. «In ospedale lo accudivamo tutti, ma non si poteva dargli il massimo, perché il tempo a disposizione del personale non bastava. Dovevamo curare anche gli altri bimbi». Nadia si mise in aspettativa: «A casa c’eravamo io e mi figlia, così potevo stimolarlo in continuazione. Lo portammo al mare e in montagna, in piscina. I progressi furono immediati: cominciò a mangiare da solo, imparò a tenere su la testa e a muoversi meglio». Dopo un anno e mezzo di calvario il piccolo cominciò ad avere una vita quasi normale, in cui c’era spazio per ridere, fare versi e giocare. «A giugno feci una grande festa per il suo secondo compleanno».

«CIO’ CHE HO RICEVUTO». 

Molti fra amici e colleghi sono rimasti colpiti dalla generosità di Nadia: «Mi dicevano che stavo facendo tantissimo, ma non capivano che era infinitamente più grande quello che mi dava lui. E non lo dico per dire: Mario mi ha dato gioia, pace, amore. È stato il regalo più bello della mia vita. Sentirlo piangere di rado e senza mai fare capricci, vederlo sereno, sorridente e dignitoso, nonostante la sua sofferenza, era ricevere continuamente speranza». Ma c’era anche chi diceva a Nadia che il suo ero uno slancio sospetto: «Alcuni parlavano di un vuoto che, secondo loro, cercavo di riempire. A dire il vero, ero contenta della mia vita prima di conoscere Mario, lui è semplicemente capitato. E il vuoto, semmai, lo sento ora. Mi manca tantissimo». 

Nadia si ferma, poi, con la voce strozzata, racconta di altre persone che le dicevano che non valeva la pena sacrificarsi per un bimbo che sarebbe morto: «Dicevano che poi avrei sofferto: “Lo so, soffrirò, ma gli voglio bene”, rispondevo. E poi preferisco soffrire per sempre per aver amato Mario anche per poco, piuttosto che non averlo mai accudito».

DOPO IL CALVARIO. 

Nadia spiega che avrebbe accolto il piccolo «anche se fosse diventato grande. Sinceramente ci speravo. Avevo già messo in vendita la casa perché non c’era l’ascensore. Avrei dovuto anche cambiare l’automobile. Ma purtroppo non è successo: volevo solo fargli assaggiare un po’ più di vita. Dopo il calvario in ospedale, qui era felice». Ora a Nadia restano i ricordi e i dialoghi con Mario: «Gli parlo in continuazione anche se è dura non poterlo più accarezzare. Se c’è un paradiso, spero che stia correndo e giocando e di arrivarci». Nadia si ferma ancora, ma questa volta ride: «Così poi lì ci potremo organizzare meglio, che di tempo ce n’è un’eternità…».

di Benedetta Frigerio Tratto  da Tempi.it