Metti una buona parola anche per me

Di Jerry John Pokorsky, USA

All’inizio del mio sacerdozio, nel 1990, la visita agli ammalati negli ospedali era tra le mie abituali responsabilità parrocchiali. Ero convinto, e lo sono tuttora, che i malati hanno bisogno di sapere che nelle loro sofferenze sono amati e sostenuti da Cristo.

Molto presto però ho imparato anche che, inspiegabilmente, molti di loro preferiscono non ascoltare questo messaggio.

 Le visite agli ammalati sono estenuanti e ciò in parte è dovuto al carico emotivo a cui si è esposti negli incontri pastorali: si entra in una camera e si può trovare un paziente rallegrato da una diagnosi o una prognosi positiva; si va in un’altra camera, e magari si scopre l’opposto e cioè una terribile diagnosi con poche aspettative di guarigione. Ognuno di questi incontri richiede attenzione ed empatia, aspettando il momento giusto per offrire i Sacramenti. Era un lavoro duro anche perché spesso –come succede a tutti i sacerdoti che compiono queste visite- venivo trattato con freddezza, se non con astio.

Una domenica mattina visitai il reparto di terapia intensiva.  Una gentile signora mi chiese tristemente di dare l’Unzione degli Infermi a suo marito. Questi era incosciente, e i medici avevano dichiarato che probabilmente non sarebbe guarito. Chiesi alla moglie se era un fedele praticante, ma lei mi disse di no, aggiungendo che non entrava in una chiesa da molti anni. Ma aggiunse anche che però non era ostile alla fede.

Le spiegai che i Sacramenti possono essere amministrati anche a persone in stato di incoscienza, ma le dissi anche che non sono magici; essi hanno valore solo se presumibilmente la persona li avrebbe desiderati, se fosse stata cosciente. Mi disse di aver capito perfettamente, così proseguii nel mio lavoro, assolvendo dai suoi peccati il marito incosciente e amministrandogli l’Unzione degli Infermi.

Nei giorni che seguirono, non avendo ricevuto alcuna chiamata per il funerale, ritornai al reparto di terapia intensiva. Sulla soglia della camera, rimasi sorpreso nel vedere quell’uomo seduto sul suo letto d’ospedale intento a leggere un libro. Quando chiesi se potevo entrare, egli mi rispose: “Padre, sono felice di vederla!”. Gli dissi che avevo una buona notizia e una cattiva notizia per lui. “La buona notizia” dissi “è che hai ricevuto i Sacramenti nonostante non fossi cosciente. La cattiva notizia, è che ora è tempo di ritornare da Gesù con una buona Confessione”.

Proprio come un giovane soldato, avevo agito velocemente come se fossi nella foga di una battaglia e mi aspettavo la possibilità di un richiamo. In alcuni casi, i rimproveri militari sono tutt’altro che gentili. Senza dubbio, però, io avevo agito con l’aiuto di Dio. La fedeltà è una mia responsabilità; il successo invece appartiene a Lui.

In quel caso comunque, la grazia di Dio condusse l’uomo a fare una bellissima confessione. Fino al giorno in cui morì, continuai a fargli visita quotidianamente con la Santa Comunione. Il suo ricongiungimento con la Chiesa fu completo, mi espresse sempre profonda gratitudine per questo.

Di tutta risposta, gli dissi allegramente: “Il mio obiettivo sarà sempre quello di farmi degli amici tra coloro che sicuramente vedranno Dio prima di me, quindi, assicurati di mettere una buona parola per me quando sarai Lassù. OK?”.

Questa era una frase tratta da un libro di storie di conversione, e tutt’ora è una consolazione del mio ministero sacerdotale.

Tratto dal libro 100 storie in bianco e nero – Edizioni ART