Nella morte per il cristiano c’è «una grande speranza»

Nell’udienza generale del 2 novembre Papa Benedetto XVI, a
partire dalla commemorazione dei fedeli defunti, ha proposto una riflessione
molto profonda sulla morte, a partire non solo dalla teologia ma anche dalle
scienze umane e da uno sguardo su come entrano in relazione con la morte gli
uomini e le donne della nostra Europa postcristiana.

Lo scopo dei «semplici pensieri sulla realtà della morte»
del Papa non è
, naturalmente, quello di fornire una descrizione sociologica, ma
di «rinnovare la nostra fede nella vita eterna».

Sì, molti in Europa oggi dicono di non essere più cristiani,
eppure «in questi giorni ci si reca al cimitero per pregare per le persone care
che ci hanno lasciato, quasi un andare a visitarle per esprimere loro, ancora
una volta, il nostro affetto, per sentirle ancora vicine».

Questo è sempre avvenuto, in tutti i tipi di cultura e di
società.
«Da sempre l’uomo si è preoccupato dei suoi morti e ha cercato di dare
loro una sorta di seconda vita attraverso l’attenzione, la cura, l’affetto. In
un certo modo si vuole conservare la loro esperienza di vita; e,
paradossalmente, come essi hanno vissuto, che cosa hanno amato, che cosa hanno
temuto, che cosa hanno sperato e che cosa hanno detestato, noi lo scopriamo
proprio dalle tombe, davanti alle quali si affollano ricordi. Esse sono quasi
uno specchio del loro mondo».

Ma, possiamo chiederci, come mai è così? E com’è possibile
che nella nostra società, che molti descrivono come materialista e interamente
secolarizzata, i cimiteri continuino a essere pieni di visitatori a novembre?
«Perché – risponde il Papa – nonostante la morte sia spesso un tema quasi
proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla
nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi,
riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero
tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un
segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra
ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e
percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è
compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità».

Se vogliamo approfondire il tema, dobbiamo scindere la
domanda in due
:  «perché proviamo timore
davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è
rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il
nulla?».  Anzitutto, risponde il
Pontefice, «abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla,
di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora
c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che
di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente
cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore
richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto
dalla morte in un solo momento».

Ma non è l’unica risposta. «Ancora, abbiamo timore davanti
alla morte perché, quando ci troviamo verso la fine dell’esistenza, c’è la
percezione che vi sia un giudizio sulle nostre azioni, su come abbiamo condotto
la nostra vita, soprattutto su quei punti d’ombra che, con abilità, sappiamo
spesso rimuovere o tentiamo di rimuovere dalla nostra coscienza». Di più:
proprio «la questione del giudizio è spesso sottesa alla cura dell’uomo di
tutti i tempi per i defunti, all’attenzione verso le persone che sono state
significative per lui e che non gli sono più accanto nel cammino della vita
terrena. In un certo senso i gesti di affetto, di amore che circondano il
defunto, sono un modo per proteggerlo nella convinzione che essi non rimangano
senza effetto sul giudizio. Questo lo possiamo cogliere nella maggior parte
delle culture che caratterizzano la storia dell’uomo».

Si tratta di qualche cosa di evidente per gli storici delle
religioni e delle culture
se la riferiamo a un mondo tradizionale. Ma oggi?
«Oggi il mondo è diventato, almeno apparentemente, molto più razionale, o
meglio, si è diffusa la tendenza a pensare che ogni realtà debba essere
affrontata con i criteri della scienza sperimentale, e che anche alla grande
questione della morte si debba rispondere non tanto con la fede, ma partendo da
conoscenze sperimentabili, empiriche». Senonché, quando si applica il
razionalismo alla morte si arriva a conseguenze molto curiose e spesso il
razionalismo si rovescia nel suo contrario, nell’irrazionalismo degli
spiritisti che cercano un contatto tangibile e a comando con i morti. «Non ci
si rende sufficientemente conto – insegna il Papa – che proprio in questo modo
si è finiti per cadere in forme di spiritismo, nel tentativo di avere un
qualche contatto con il mondo al di là della morte, quasi immaginando che vi
sia una realtà che, alla fine, sarebbe una copia di quella presente».

Da queste tentazioni si esce solo con la fede, che anzi
trasforma la morte in occasione di speranza.
«La solennità di tutti i Santi e
la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci dicono che solamente chi può
riconoscere una grande speranza nella morte, può anche vivere una vita a
partire dalla speranza. Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla sua
dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa
vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra
speranza per lui è troppo breve».

In teoria potremmo immaginare forme laiche e naturali di
comprensione della morte,
ma di fatto nel contesto attuale ogni confronto con
la morte che prescinda da Dio porta alla disperazione o a derive verso
l’occultismo. «L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni
isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo
spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo,
solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si
è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: “Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e
crede in me non morirà in eterno” (Gv 11,25-26)».

Come cristiani, abbiamo la chiave di lettura per comprendere
il senso della morte
e «ogni domenica, recitando il Credo, noi riaffermiamo
questa verità. E nel recarci ai cimiteri a pregare con affetto e con amore per
i nostri defunti, siamo invitati, ancora una volta, a rinnovare con coraggio e
con forza la nostra fede nella vita eterna, anzi a vivere con questa grande
speranza e testimoniarla al mondo: dietro il presente non c’è il nulla». Né si
tratta di una fuga dal mondo e dai suoi problemi. È piuttosto il contrario:
«proprio la fede nella vita eterna dà al cristiano il coraggio di amare ancora
più intensamente questa nostra terra e di lavorare per costruirle un futuro,
per darle una vera e sicura speranza».

di Massimo Introvigne  tratto da La Bussola Quotidiana 2-11-2011